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“Biglietto di andata e ritorno” di Salvatore Paci – Capitolo 12

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Biglietto di andata e ritorno

un thriller di Salvatore Paci

Capitolo 12

Prima di arrivare al cunicolo di San Sebastiano si aprì sulla nostra destra una galleria. Era più larga e alta di quella che avevamo percorso fino a quell’istante.

«Questo cunicolo punta a ovest ma lo esamineremo tra qualche istante. Prima vi faccio vedere dove si trova quello di San Sebastiano.»

Era pressoché identico a quello che avevamo visto prima. Breve, con una scala di pietra e un solido muro a sbarrarne il percorso.

«Perché hanno eretto questi muri?» mi chiese Roberta.

«Perché molte persone, nel corso degli anni, affascinate dalla leggenda che vuole Caltanissetta attraversata da questi cunicoli hanno cercato di raggiungerli. Hanno provato in ogni modo, soprattutto esplorando le chiese più antiche della città. Certamente non tutti hanno la possibilità di muoversi liberamente all’interno di una chiesa ma alcuni sì. Mi riferisco a coloro che fanno parte di gruppi che svolgono attività varie all’interno della parrocchia. Più di una volta ho sentito parlare di ragazzi sorpresi a esplorare le gallerie sotterranee dopo aver trovato la via per raggiungerle. Per evitare che il fenomeno si ripetesse continuamente, l’accesso ai cunicoli è stato bloccato definitivamente.»

«Giuseppe, cosa ti succede?»

Roberta si era accorta di qualcosa che non andava nel nostro compagno di esplorazione.

«Niente», disse Castrogiovanni Junior mentendo. «Stavo pensando a una cosa.»

«Cosa?» gli chiesi.

«Che siamo scesi nel cuore di Caltanissetta per trovare mio padre, vivo o morto. Ebbene, se davvero lui si trova qui, è certamente morto e prima o poi incontreremo il suo cadavere. E per me…»

«Capisco», bisbigliai.

«Capisci, capisci… ma cosa capisci?» urlò battendo i pugni contro la parete. «Non puoi capire. Bada, non ce l’ho con te; semmai con il destino. Tutto sarebbe diverso se mio padre avesse usato il cervello come si deve. Cosa gli mancava? Una famiglia ce l’aveva. I soldi, e molti, pure. Avrebbe potuto ricostruire il rapporto con tutti noi.» Scosse la testa come per scacciare i cattivi pensieri. «Questo dannato alcol lo ha rovinato, gli ha corroso il cervello. Credeva al diavolo, a eventi soprannaturali. Cose da pazzi. A volte, quando non ci sono malattie, l’uomo se le procura con le sue stesse mani. Lo odio! Cosa mi è rimasto di lui? Soltanto un bel conto in banca e la Mercedes. Niente in confronto alla perdita di un padre. Ho un vuoto qui», disse battendo forte la mano sul petto, «e nessuno potrà mai colmarlo. Lui che quand’ero piccolo mi ha insegnato a non farmi fregare dalla vita… lui… si è fatto annientare dall’alcol. Lo odio, lo odio!»

«Dimmi una cosa», gli disse Roberta poggiandogli una mano sulla spalla. «Capisco che non è il momento adatto ma… che fine hanno fatto i soldi delle vincite?»

«Non lo so. Ho fatto il giro delle banche presso le quali li teneva e ho scoperto che ha ritirato tutto quanto qualche giorno prima di scomparire.»

«Strano, davvero strano», mormorai.

«Comunque», gli dissi dandogli una pacca sul petto, «cammina sempre dietro di me. Cercherò di evitarti brutte sorprese. Ok?»

«Ok», disse cercando di darsi un contegno. Poi si drizzò e strinse i pugni. «Possiamo continuare la nostra avventura. Scusatemi per lo sfogo.»

Sfogo. Lo capivo benissimo. La vita di suo padre era stata distrutta da una serie di eventi che egli stesso aveva costruito nella sua mente. Un incubo perenne che aveva offuscato ogni facoltà di ragionare come si deve.

Un incubo. Già, un incubo. Pensai al mio che aveva avuto suo padre come protagonista. E se quello che era successo a lui fosse accaduto a me? Anche io ero maledettamente predisposto a credere a eventi soprannaturali. Il fatto stesso che avevo creduto — e credevo ancora — che Castrogiovanni da morto avesse avuto bisogno del mio aiuto, diceva tutto sulla fragilità della mia psiche.

«Andiamo!»

Tornammo indietro e ci dirigemmo verso il punto in cui iniziava la galleria che puntava a ovest. Giuseppe era tornato in sé e marciava con passo sicuro e pesante.

«Lì dovrebbe esserci la fontana del Tripisciano», dissi puntando l’indice verso l’alto. «Ci troviamo ad almeno venti metri sotto la Piazza Garibaldi. Forse anche trenta.»

«Così tanti?» chiese Roberta mentre guardava verso l’alto come se, da lì, potesse vedere la piazza.

«Certamente», le risposi. «Se ci trovassimo a meno di quindici metri dal livello della strada questa galleria sarebbe stata danneggiata o addirittura distrutta dai lavori di scavo eseguiti per la collocazione e la manutenzione della fontana. Considera che periodicamente viene rimosso e ripristinato il manto stradale tramite l’utilizzo di mezzi molto pesanti. Inoltre, sotto la piazza passano cavi telefonici, elettrici, condutture del gas, tubazioni per la distribuzione dell’acqua potabile. Tutto ciò è stato collocato a diversi metri sotto la superficie calpestabile. Eppure questa galleria è ancora in ottimo stato. Sì, sì. Ci troviamo almeno trenta metri sotto il mantello stradale. Inoltre, credi che i costruttori di questi cunicoli si siano limitati alla realizzazione di una scala per collegare una chiesa alle gallerie? No, no! Si dice che sotto ognuna delle chiese principali di Caltanissetta ci siano ambienti molto simili ad appartamenti. Era lì che avvenivano gli incontri più segreti. Era lì che si decideva il destino della città. Da sempre, parallelamente alla cultura che vuole gli dei in cielo ne esiste un’altra che li vuole in terra. Agharti, Agharti…»

«Agharti?» ripete Castrogiovanni Junior.

«Non ne hai mai sentito parlare?»

«Veramente… no.»

«Agharti, il Regno di Sottoterra..»

Interrogai con gli occhi Giuseppe e capii che in quel momento nella sua mente c’era il buio più pesto. Ancora più buio dell’ambiente nel quale ci trovavamo in quell’istante.

Ripresi il mio discorso. «Si sostiene che alcuni millenni fa esistesse un regno abitato da esseri semidivini. Si trattava del centro spirituale di tutto il pianeta. Questo regno prosperava alla luce del sole e veniva chiamato Paradesha che, in Sancrito, la lingua degli dei, significa Paese Supremo e suona simile al meglio conosciuto Paradiso.» Iniziai a percorrere la galleria invitando Roberta e Giuseppe a seguirmi.

«È meglio se continuiamo il nostro cammino», aggiunsi. «Non abbiamo tanto tempo a disposizione.»

«Affascinante!» esclamò Roberta che, come me, era affamata di conoscenza. «Continua, per piacere.»

«Gli abitanti di questo regno», ripresi a dire mentre imboccavo la galleria, «all’inizio del Kali Yuga, nome con il quale gli Indu definivano l’Età Nera, si trasferirono sottoterra per evitare di essere contaminati dal male. A seguito di questo trasferimento il nome della loro terra fu trasformato in Agharti, che significa l’inaccessibile. Si dice che il cuore di Agharti sia sotto l’Asia centrale e che tramite gallerie sotterranee il suo regno si estenda dalle montagne del Tibet e del Nepal fino alle caverne dell’America. Il centro del Regno sotterraneo ha sede nel principale incrocio delle correnti terrestri dal quale vengono generati fiumi di energia arcana che percorrono tutto il pianeta. Per evitare che questo regno venga contaminato è stato reso inaccessibile e chiunque sia riuscito a penetrarvi non ne è più venuto fuori. Si racconta di un cacciatore che riuscì a venirne fuori ma gli fu recisa la lingua dai Lama affinché non potesse raccontare ciò che aveva visto. A quanto pare esiste un solo popolo che è nato ad Agharti e ora vive in superficie. Si tratta degli zingari, gente che ancora conserva una memoria genetica che li porta a girovagare alla ricerca di una patria che non potranno mai più trovare.»

Ore 12:35

La galleria proseguiva in leggera salita. Stando a quello che avevo visto nella piantina, mi convinsi che la stazione successiva sarebbe stata quella di Santa Venera. Sapevo che stavamo passando sotto o molto vicino alla chiesa di Sant’Agata e, qualche minuto dopo, non avendo trovato alcun cunicolo di collegamento, ne ebbi la conferma.

«La prossima tappa, come avrete certamente capito, è Santa Venera. Siamo appena passati vicinissimi al collegio di Sant’Agata che, a quanto pare, non è collegato alla serie di cunicoli.»

«Santa Venera?» esclamò Giuseppe.

«Santa Venera o Santa Flavia. Non saprei.»

«Ah, forse ho capito», disse Giuseppe. «Santa Venera è il vecchio nome di Santa Flavia.»

«Errato!» gli risposi senza rallentare il mio passo. «Si tratta di due strutture diverse. L’attuale monastero benedettino di Santa Flavia fu fatto costruire accanto alla vecchissima chiesa di Santa Venera, da Maria, in memoria del marito, il Principe di Caltanissetta Francesco Moncada quando quest’ultimo morì a causa della peste nel lontano mese di maggio del 1592. La scelta del nome ricadde su Santa Flavia in onore della sorella di San Placido.»

«Quindi si tratta di due chiese diverse», disse Gheppio Junior.

«Esatto. Ecco perché non sono completamente sicuro che questa galleria ci porterà al convento benedettino.»

«Secondo me, questo cunicolo ci porterà a Santa Flavia.»

«E secondo me no», affermai con decisione.

«Perché?»

«Penso ai moltissimi curiosi che hanno cercato invano l’ingresso dei cunicoli tra le stanze dell’attuale chiesa. Se non l’hanno trovato è perché non si trova lì. Credo che queste gallerie risalgano a un periodo più remoto rispetto al 1562. Tranne se…»

«Se?»

«Tranne il caso in cui i monaci, essendo a conoscenza dell’esistenza di questi cunicoli, hanno deciso di scavarne uno nuovo per collegare il monastero alla rete di gallerie sotterranee. Comunque, tra poco ce ne accorgeremo. Troveremo una o due scale murate. Se ne troveremo soltanto una, sarà quella di Santa Venera.»

La salita diventò più ripida e mise a dura prova i nostri muscoli già abbastanza stanchi e i nostri polmoni desiderosi di aria fresca. Roberta non si arrendeva e, seppur a fatica, proseguiva senza lamentarsi.

Ore 13:02

La pendenza finalmente diminuì e questo mi rallegrò. Capivo che Roberta era distrutta mentre Giuseppe era ancora pimpante. I suoi passi suonavano decisi nel silenzio dei cunicoli.

Così come era già accaduto quando eravamo sotto la Cattedrale, ci ritrovammo a pochi passi da una piccola galleria che si apriva alla nostra destra. La esplorammo con estrema curiosità e ci accorgemmo che, mentre quelle di San Sebastiano e della Cattedrale terminavano con una parete, questa, che procedeva in forte salita, finiva con le sue stesse macerie. In quel tratto era crollato tutto. Il peso di ciò che le stava sopra aveva avuto la meglio sulla vetusta muratura. Doveva trattarsi dell’entrata che un tempo portava a Santa Venera. Ne ero sicuro ma non avevo elementi per dimostrarlo.

«Torniamo indietro», dissi al gruppo. «Qui rischiamo di lasciarci le penne.»

Giuseppe, che era l’ultimo del gruppo si girò goffamente e urtò una delle pareti. A questo suo movimento, cominciarono a cadere dal soffitto polvere e frammenti di pietra.

«Piano!» gli urlai. «Vuoi rimanere sepolto tra le macerie?»

«Non ci tengo proprio», mi rispose muovendosi con una ritrovata delicatezza.

Roberta fu la seconda a raggiungere la galleria principale e io fui l’ultimo. Tirai un sospiro di sollievo. Un brevissimo sospiro in quanto una frazione di secondo dopo sentii un frastuono alle mie spalle. Il rumore si trasformò in un boato quando dalla mini galleria cominciarono a fuoriuscire blocchi di pietra. Giuseppe, che si trovava a valle rispetto a essa, si vide sfiorare il piede da un masso.

«Salta da questa parte!» gli urlai. «Porca miseria, fai presto.»

Castrogiovanni Junior restò immobile davanti a quello che stava accadendo. In pochi secondi la valanga di pietre invase il cunicolo principale dividendo il nostro gruppo. Io tenevo Roberta per mano mentre Giuseppe restò bloccato dall’altra parte.

Ore 13:21

Rimanemmo immobili, senza poter parlare, come accade ogni volta che un avvenimento è così immediato da lasciar storditi gli spettatori. Negli istanti che seguirono, le macerie si assestarono sulla pavimentazione della galleria mentre una fitta coltre di polvere non ci permetteva ancora di tenere gli occhi ben aperti. Solo quando ebbi la certezza che il fiume di pietre si era definitivamente arrestato, mi avvicinai a esse nel tentativo improbabile di rimuoverle.

Cominciammo a chiamare Giuseppe ad alta voce ma, dall’altra parte, non giungeva alcun suono.

«E ora?» mi chiese Roberta mentre con una mano tra i capelli cercava di liberarsi dalla fastidiosa patina di polvere che glieli ricopriva.

Non avevo una risposta alla sua domanda. Non in quel momento, almeno. Cosa le avrei potuto dire? Confidarle i miei timori? Quell’ammasso di macerie, oltre ad aver diviso il nostro gruppo, ci aveva precluso la possibilità di tornare indietro per quella stessa strada. La mia mente si riempì di pensieri negativi mentre un senso di oppressione si impadroniva di me. E se più in avanti la galleria fosse stata bloccata?

Il pensiero di una morte lenta, a poche decine di metri sotto terra, mi terrorizzava. Ciononostante, non volevo, anzi, non dovevo far preoccupare Roberta.

«Speriamo che ci sia una via d’uscita. Non vorrei morire soffocata qui sotto», riprese la mia ragazza come se avesse letto la mia mente.

«Non preoccuparti. Adesso dobbiamo pensare a Giuseppe. Quando le pietre hanno cominciato a invadere la galleria quel cretino, invece di fare un salto verso di noi lo ha fatto indietro. Comunque non credo che si sia fatto male.»

«Giuseppe!» ripresi a urlare a pochi centimetri dal cumulo di macerie.

«Giuseppe!» incalzò Roberta.

Dall’altra parte non proveniva alcun suono. Per la stizza diedi un pugno alla parete alla mia destra scorticandomi un po’ le nocche.

«Il walkie-talkie, Antonio, prendi il walkie-talkie!»

«Il cosa? Ah già, che stupido!»

Aprii il mio zainetto con mani tremanti e tirai fuori la ricetrasmittente. L’accesi e pigiai il tasto laterale.

«Giuseppe, Giuseppe!»

Rilasciai il tasto e rimasi in ascolto.

Nessuna risposta: soltanto fruscii.

«Giuseppe! Porca miseria, rispondi!»

Seguì un disperato silenzio.

«Lascialo acceso, se non si è fatto male prima o poi si renderà conto che deve utilizzarlo.» Inclinò la testa da un lato. «Spero.»

Roberta si sedette a terra. Illuminai il suo viso stanco e contratto.

«Questa non ci voleva!» le dissi muovendo continuamente la testa a sinistra e a destra, non riuscendo a celare il mio scoramento.

«Propongo di fare una cosa, vediamo se sei d’accordo», continuai. «Aspettiamo ancora qualche minuto dopodiché ci spostiamo da qui. Bene o male lui è in grado di tornare indietro fino alla cappella; deve semplicemente rifare la strada al contrario e non è per niente difficile. Noi, invece, non sappiamo neanche se esiste un’altra uscita oltre a quella dell’urna della cappella di Sebastiano.»

«Mi vuoi fare credere che nessuna delle chiese è collegata a queste gallerie?»

«Cosa vuoi che ti dica? L’entrata della Cattedrale era murata. Altrettanto quella di San Sebastiano. Siamo passati vicino al collegio di Sant’Agata e non c’era neanche l’ombra di un ingresso. Adesso siamo…»

«Basta, basta!» mi interruppe Roberta. «Capito, capito. Cerchiamo una soluzione e, soprattutto, cerchiamo di pensare in maniera positiva se no impazziamo.»

Mi sedetti a terra anch’io.

Ore 13:48

La polvere che fino a un minuto prima aleggiava nell’aria si era depositata a terra cambiando completamente colore al pavimento. La luce vi si riverberava rendendo la galleria più luminosa. Pensai che sarebbe stato inutile tentare di rimuovere i massi perché togliendone uno da quel maledetto cunicolo laterale ne sarebbero ruzzolati altri.

Roberta guardava continuamente verso le macerie. Con il suo fascio di luce cercava in ogni direzione, in attesa di uno spostamento, di un suono o di un segnale che purtroppo non arrivava. La osservavo evitando di puntarle addosso la luce della torcia. Non volevo disturbarla mentre era completamente assorta nei suoi pensieri. Illuminavo le mie scarpette da jogging e con la coda dell’occhio la guardavo.

Mi sorpresi a studiare la sua espressione. I pensieri che attraversavano il suo cervello riuscivano a disegnare una ruga sulla sua fronte. Per la prima volta da chissà quanto tempo mi trovai privo delle mie sicurezze. Lì non potevo cambiare la mia condizione comprando qualcosa o chiedendo un favore a qualcuno. Ero con la mia ragazza a chissà quante decine di metri sotto il livello del suolo e con un solo mezzo di comunicazione: un walkie-talkie dalla portata nominale di tre chilometri all’aperto che in quel contesto si riduceva, a non più di un centinaio. Cosa sarebbe successo se ci fossimo allontanati? Avremmo perso la possibilità di contattare Giuseppe che, al momento, rappresentava l’unico punto di contatto tra noi e il mondo.

Vidi Roberta tirare fuori dal suo zaino il cellulare, pigiare il tasto di accensione e aspettare pazientemente che il display visualizzasse la maschera iniziale.

«Se solo questo dannato apparecchio funzionasse quaggiù, potrei chiamare Francesca.»

«Amore», le dissi con una voce fioca, «non vorrei deluderti ma mi sembra improbabile che quaggiù ci possa essere la copertura di rete.»

Mi fissò con uno sguardo triste.

«Infatti», sussurrò spegnendo il telefonino e riponendolo nello zaino.

«Adesso provo anch’io ma non nutro alcuna speranza.»

Neanche i miei, di due gestori diversi, riuscirono a entrare sotto copertura di rete.

Li spensi e li ficcai dentro una delle tasche del mio zaino.

Ore 13:58

«Coraggio», dissi alzandomi in piedi e porgendole una mano per esortarla a fare altrettanto. «Andiamo! Giuseppe non è in pericolo.»

Avevamo già percorso qualche metro quando il walkie-talkie cominciò a gracchiare. Questo evento ci paralizzò. Qualche secondo dopo arrivò una voce.

«Antonio, Roberta. Ci siete? Passo.»

Era la sua voce. Finalmente si era deciso ad accendere il suo apparecchio. Sospirai.

«Sì, Giuseppe. Ci siamo. Come stai? Passo.»

«Bene. Mi sono allontanato in tempo ma adesso tra di noi c’è questa montagna di pietre. Ho paura che cercando di toglierle crolli tutto. Che facciamo? Passo.»

«Dimmi una cosa: alle tue spalle la galleria è libera? Passo.»

«Sì, è libera. Passo.»

«Bene. Sappi che puoi fare una delle seguenti due cose: tornare indietro per la strada che conosci oppure…» mi permisi qualche secondo di pausa durante la quale avevo rilasciato il pulsante di invio. «Oppure cercare di raggiungerci. Passo.»

«E come? Passo.»

«Se percorri in senso inverso tutta questa galleria e alla sua fine svolti a destra, dovresti raggiungere il convento dei Cappuccini. Se ciò che penso è esatto, dal convento dovrebbe partire un’altra galleria che porta qui, a Santa Venera. Scegli cosa fare. Passo.»

«Provo a raggiungervi. Ci sentiamo tra un po’. Passo.»

«Aspetta, prima devo parlarti. Passo.»

«Dimmi. Passo.»

«Questi walkie-talkie hanno una portata limitata. Allontanandoci perderemo il contatto. Dobbiamo metterci d’accordo sul da farsi: non è sicuro che riusciremo a risentirci o a incontrarci nuovamente. Passo.» Quest’ultima frase la dissi con il morale a terra. Quello che avevo detto suonava quasi come un addio ma non volevo che fosse realmente tale.

«Allora… se non riesci a raggiungerci, torna tranquillamente indietro fino alla cappella del tuo avo, esci e chiama aiuto. Anzi, aspetta fino alle diciassette prima di chiamare aiuto. Non lo fare prima di quell’orario ma non farlo neanche molto dopo. Passo.»

«Ok. Posso andare? Passo.»

«Vai e in bocca al lupo. Passo.»

«Crepi! Passo.»

[Continua…]


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