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“Biglietto di andata e ritorno” di Salvatore Paci – Capitolo 13

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Biglietto di andata e ritorno

un thriller di Salvatore Paci

Capitolo 13

Ore 14:06

Quelle macerie per me rappresentavano ormai il confine con il mondo esterno e sapere di aver un alleato al di là di quel limite mi faceva sentire meglio. Con la forza che un essere umano può trovare soltanto nei momenti più critici, riprendemmo a marciare.

Qualche decina di metri dopo ci trovammo a un quadrivio.

Roberta si fermò e vidi dall’espressione degli occhi che il suo cervello stava girando a dodicimila giri al minuto. Un barlume di speranza illuminò il suo viso disegnandole un sorriso.

«Vediamo se ho capito», esordì. «A sinistra si va verso il convento dei Cappuccini, diritto si va verso l’abbazia di Santo Spirito mentre a destra si torna indietro verso il castello. Vero?»

«Parrebbe proprio di sì. A questo punto dobbiamo decidere cosa fare. Tornare alla cappella adesso significherebbe aver fatto tutto quanto per niente. Andando a sinistra andremmo incontro a Giuseppe che, spero, dovrebbe arriverebbe qui nel giro di un’ora. Direi di andare avanti.»

Roberta si irrigidì.

«Cosa? Abbiamo la possibilità di tornare alla cappella e tu vuoi continuare l’esplorazione?»

«Appunto!»

«Appunto cosa?»

«La strada del ritorno è questa», dissi indicandola. «Sappiamo che c’è e, se ce ne sarà la necessità, la utilizzeremo.»

«Ma Giuseppe ci cercherà qui», disse Roberta con disappunto.

«Gli lasciamo un messaggio. Vediamo un po’.»

Presi il block notes che avevo nello zainetto e ne stracciai un foglio.

«E se non lo vede?»

«Lo vedrà. Tranquilla, lo vedrà.»

Mi inginocchiai e chiesi alla mia ragazza di farmi luce con la sua torcia, dopodiché, dopo aver finito di scrivere, rilessi a voce alta.

«Siamo andati verso l’abbazia. Ci incontriamo là.»

Sul foglio avevo disegnato anche una freccia per indicare la direzione che Giuseppe avrebbe dovuto seguire.

«Adesso possiamo andare», dissi dopo aver sistemato il foglio al centro del quadrivio.

Ripartimmo mano nella mano.

Ore 14:14

Sembrava che quel cunicolo non finisse mai. Era diritto come una candela e scendeva con una pendenza molto pronunciata. Sembrava di trovarsi dentro a uno di quei tunnel dell’autostrada dentro i quali prima o poi vedi un puntino luminoso che, metro dopo metro, si allarga sempre di più. Qui, il piccolo particolare che faceva la differenza era che quel puntino luminoso non si vedeva mai. Anzi, mentre facevo queste considerazioni la mia torcia cominciò a perdere colpi. La luce divenne più fioca e fui costretto a fermarmi per sostituire le batterie. Quando finii con la mia, sistemai anche quella di Roberta.

Ore 14:32

La galleria sembrava interminabile. Passo dopo passo, pietra dopo pietra, tutto si riproponeva con una monotonia ipnotica. Non ci lamentavamo per non sovraccaricare i nostri nervi. Non parlavamo per risparmiare energie. Alle nostre orecchie arrivava solamente il fruscio delle nostre suole che strofinavano sulla polvere, che calpestavano mattoni resi lisci dal tempo e il cui ritmo andava scemando, anche se appena percettibilmente, passo dopo passo.

Ore 14:46

Roberta finse un sorriso quando mi chiese di fermarci per un paio di minuti. Non le illuminai il volto perché sapevo cosa avrei trovato: un viso stanco e teso che non mi avrebbe per niente tirato su il morale. L’accontentai.

Approfittai di questa pausa per provare a chiamare Castrogiovanni Junior con il walkie-talkie ma, come previsto, a parte il rumore di fondo non arrivava nulla. Ci eravamo separati intorno alle quattordici e cinque minuti. Io e la mia ragazza avevamo impiegato quaranta minuti per percorrere il tratto di galleria che da Santa Venera portava lì dove ci trovavamo in quel momento. Giuseppe, per raggiungerci avrebbe dovuto percorrere molta più strada. Pensai che in quel momento doveva trovarsi pressappoco vicino a San Michele. Realizzai una cosa alla quale non avevo pensato fino a quel momento: Castrogiovanni, una volta giunto al convento, si sarebbe trovato davanti a un bivio. La strada che lo avrebbe portato direttamente all’abbazia e quella che lo avrebbe condotto a Santa Venera. Durante la nostra breve comunicazione non gli avevo parlato di questo bivio. Scossi la testa e Roberta se ne accorse.

«Cosa c’è?» mi chiese.

«Non ho detto a Giuseppe che, giunto a San Michele, avrebbe dovuto girare a destra per raggiungerci.»

«E se non prende a destra?»

«Va verso l’abbazia.»

«Meglio, no? È là che deve raggiungerci. Glielo abbiamo scritto nel foglietto.»

«Ma cosa stai dicendo? È la stanchezza che ti fa dire queste corbellerie.»

«Quali corbellerie?»

«È vero che gli abbiamo scritto il foglietto ma, questo foglietto, dove si trova?»

«È vero! Si vede che sono completamente fusa. Perdonami!»

«Non preoccuparti. Se prenderà a destra, leggerà il messaggio e proseguirà per l’abbazia. Se, invece, prenderà a sinistra ci incontreremo al capolinea.»

«Allora è tutto a posto», disse.

Ore 15:04

Parecchie centinaia di metri dopo ci ritrovammo davanti a un altro bivio. Nel nostro percorso dentro il niente e verso il nonsapevocosa, un bivio rappresentava una variazione al tema. Piccola consolazione ma ben accetta.

«A sinistra si va verso il convento dei Cappuccini e a destra, credo, verso la cappella. Ma…»

«Ma cosa?»

«Non capisco se questo tratto di galleria che abbiamo davanti porta direttamente all’abbazia.»

«Non lo so», mi rispose Roberta. «Percorriamolo e lo sapremo.»

Le pareti di quel tratto erano state realizzate con lo stesso stile del cunicolo precedente però il tasso di umidità nell’aria era diverso. Finalmente stavamo arrivando da qualche parte, ne ero sicuro.

Improvvisamente sentii un rumore forte e secco. Io e Roberta dopo esserci cercati con le torce prima ci guardammo, poi cominciammo a ruotare la luce intorno. Se non avessi notato lo stupore nel volto della mia ragazza avrei pensato di aver immaginato quel rumore. Stoicamente, dopo esserci fermati soltanto per un istante e aver rimosso quell’episodio, riprendemmo la nostra passeggiata fino a quando qualcosa attirò la nostra attenzione. Le nostre torce stavano illuminando la stessa cosa: un arco in pietra. Sulla parte più alta si intravedeva un’incisione.

«Caeci sunt oculi cum animus alias res agit», lessi ad alta voce.

«Ci mancava anche questa! Che vuol dire?»

«Non lo so. Ciechi sono gli occhi e… il resto non lo capisco.»

Illuminammo il tratto oltre l’arco e procedemmo quasi all’indietro, alla ricerca di qualche altra incisione. Varcatolo notammo una seconda incisione, parzialmente nascosta dai mattoni posti alla sommità dell’arco. Ci allontanammo ancora di qualche passo e, mentre con la torcia riuscivo finalmente a illuminare tutta la scritta, mi accorsi di essere salito con un piede su un mattone che era più sollevato rispetto agli altri. Un istante dopo, un rumore ci fece trasalire. Vedemmo un muro di pietra chiudersi velocemente e inesorabilmente davanti ai nostri occhi. L’arco in pietra adesso era bloccato.

Questa volta eravamo davvero in trappola.

Illuminai il viso di Roberta e lei illuminò il mio. Sapevo di aver disegnata sul volto la stessa espressione di smarrimento che leggevo nella faccia della mia ragazza. Ostentai una poco convincente sicurezza e tornai a illuminare la seconda incisione.

«Pretium sceleris», lesse Roberta.

«Il prezzo della scelleratezza», tradussi pur non conoscendo il latino.

Feci una pausa di silenzio durante la quale guardai il pavimento sotto i miei piedi.

«Ecco il colpevole», dissi facendo luce su un mattone. «È stato questo a fare scattare il meccanismo che ha chiuso la porta. Se lo schiaccio nuovamente cosa succede?»

Salii più volte con il piede sul mattone ma non accadde nulla. Provai a schiacciarlo una volta e a illuminare la porta.

Niente.

Provai due, tre, quattro volte. Niente di niente.

«Forza e coraggio! Non dobbiamo arrenderci», le dissi. «Dobbiamo trovare il modo per uscire da qui.»

«Ecco cosa significava Caeci sunt oculi cum animus alias res agit. Era un avvertimento.»

«Cioè?» le chiesi.

«Gli occhi di chi ha la mente occupata in un’altra cosa sono ciechi.»

Cominciai a capire.

«Sono ciechi gli occhi di chi ha la mente occupata in un’altra cosa», ripeté Roberta.

«Ho capito, ho capito. La prima incisione è stata, allo stesso tempo, un avvertimento ma anche una trappola. È stata questa a distrarmi e a farmi camminare all’indietro.»

«Già!» sospirò.

Spostai la mia attenzione verso il luogo nel quale ci trovavamo. Era una cripta. Malgrado la condizione di prigionieri non era il meglio che si potesse desiderare, devo ammettere che ciò che avevo davanti agli occhi era qualcosa di straordinario. Soprattutto perché si trovava sottoterra. Poteva essere larga circa sei metri e lunga dodici. Si presentava composta da tre navate. Quella centrale era larga quanto le due laterali messe insieme. Al centro della cripta si ergevano sei colonne che reggevano il tetto a volte. Nel quadrato delimitato dalle quattro colonne più distanti era posizionato il presbiterio al centro del quale c’era un piccolo altare, sostenuto da un basamento in marmo squadrato e coperto da una stoffa logora e umida che pendeva da ambo i lati. Sia a destra che a sinistra erano presenti delle panche malridotte che, in tempi migliori, avrebbero potuto ospitare tra le venti e le venticinque persone. Il pavimento era composto di mattoni di forma quadrata mentre le pareti erano state costruite con pietre di forma rettangolare. In fondo alla cripta si trovava l’abside con una croce greca fissata ai mattoni della parete. Esplorai con la torcia anche la parete che avevamo appena attraversato. Ai due lati dell’arco in pietra c’erano due grandi scaffali pieni di libri impolverati.

«Ho paura», mi disse Roberta con la voce tremolante. «Mi sento murata in una stanza.»

Si strinse a me.

L’abbracciai e la baciai sulla fronte.

«Non preoccuparti, presto usciremo da qui.»

Mi sentivo responsabile di ciò che ci stava capitando. Maledissi la mia dannata curiosità che già troppe volte durante la mia vita mi aveva messo nei guai. Dovevo pensare, escogitare qualcosa. Intanto restavo in silenzio mentre la mia ragazza partecipava alla mia concentrazione con gli occhi serrati.

«Facciamo il punto della situazione. Secondo me ci troviamo sotto l’abbazia di Santo Spirito e questa è la sua cripta.»

Mi staccai da Roberta e mi incamminai verso l’abside perché avevo visto qualcosa che aveva attirato la mia attenzione. Le luci delle torce, illuminando le colonne, proiettavano ombre che sembravano animate. Per un istante avvertii un brivido freddo che mi percorreva la schiena e la mia immaginazione mi faceva vedere quello che nella realtà non esisteva; avevo paura di girarmi e scoprire un gruppo di monaci seduti sulle panche di legno. Mi sforzai per non impressionarmi e accelerai il passo. Giunto davanti alla croce notai due cose molto interessanti. La prima fu una incisione sulla parete nella quale c’era scritto Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi. Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum, frase che lessi ad alta voce. La seconda fu qualcosa che mi fece sperare che la nostra avventura non finisse in quella cripta.

L’abside nascondeva una porta di pietra. Guardando attentamente le pietre che la formavano e le fughe più profonde delimitavano un’area che sembrava proprio voler celare una porta. Provai invano a spingere la parete, a tastare pietra dopo pietra alla ricerca di un meccanismo liberatorio. Niente da fare.

Roberta volle provare a inserire le sue dita tra le fughe più marcate ma, neanche lei ottenne il risultato sperato.

Tornai indietro verso gli scaffali. La polvere ricopriva a tal punto il dorso dei libri da non consentirmi di leggerne il titolo. Ne tirai fuori uno e lo aprii. L’umidità di quel luogo aveva avuto un effetto deleterio sulle pagine del libro e le teneva appiccicate l’una all’altra dandomi la sensazione che si sarebbero strappate se non le avessi trattate con estrema delicatezza. Intuii si trattasse di un libro di lodi. Gli diedi una guardata fugace, lo chiusi e lo inserii al suo posto. Cercai di prendere il libro accanto ma ne uscì soltanto una metà dal suo alloggiamento. Inoltre, aveva la forma di un libro ma la consistenza del legno. Forzai un poco ma non riuscii a tirarlo fuori. Lo spinsi indietro e lo tirai nuovamente. Sentii un rumore meccanico simile a quello prodotto dalle casseforti meccaniche quando si ruota il disco coassiale. Diedi un’occhiata al dorso, non prima di avergli soffiato un poco sopra. Una nuvola di polvere cominciò i suoi volteggi nel cono di luce della torcia.

A differenza degli altri, questo volume aveva un’illustrazione. C’erano due personaggi raffigurati. Uno era certamente Gesù mentre l’altro, dall’aspetto buono, gli stava accanto e lo aiutava a portare la croce.

Provai a estrarre il libro successivo e questo venne fuori. Anche questo aveva l’aria di essere un libro di preghiere. Continuai la mia esplorazione con l’intento di trovare un libro con la piantina di quel luogo sotterraneo.

Dopo averne visionati tanti mi imbattei nuovamente in un altro libro che non riuscivo a estrarre completamente dal suo alloggiamento e che produceva un clic. Anche questo aveva un’illustrazione sul dorso: Gesù in croce e una donna e un uomo ai piedi della stessa.

Roberta, che fino a quel momento aveva assistito passivamente al mio operato, mi appoggiò una mano sulla spalla.

Mi voltai e la guardai.

«Forse…»

«Forse cosa?» le chiesi.

«Controlliamo quanti sono i libri che non vengono fuori. Scommetto che sono quattordici. Tu controlla lo scaffale di destra che io controllo l’altro.»

Fui costretto a passare la mano sul dorso di tutti i libri per rimuovere la polvere che li ricopriva. Mano a mano che ne trovavo uno lo tiravo all’infuori per poterlo contare successivamente. Ogni libro con il dorso illustrato produceva un clic non appena veniva spostato. Alla fine della mia ricerca ne contai sette e lo comunicai alla mia ragazza.

«Anche i miei sono sette», mi rispose. «Li ho spostati, come hai fatto tu.»

«Quale sarebbe la tua intuizione?» le chiesi.

«Si tratta delle stazioni della Via Crucis. Pensavo che facendo scattare tutti e quattordici i meccanismi si aprisse qualcosa, mentre invece…»

Ci spostammo nuovamente dietro l’altare, nell’abside e provammo a spingere quella che pensavamo fosse la porta di pietra. Tutto inutile. I nostri fasci di luce scrutarono ogni angolo della cripta alla ricerca di qualcosa che ci indicasse un passaggio ma, purtroppo, non trovammo nulla.

«È certo che quei quattordici pseudo libri fanno parte di un congegno che probabilmente apre questa porta. Però, li abbiamo azionati tutti quanti ma non abbiamo ottenuto nulla.»

«Sei sicura di averli tirati per bene?»

«Sì!»

«Hai sentito il clic per ogni libro di legno che hai tirato all’infuori?»

«Sì», rispose Roberta con un tono un po’ seccato.

«Forse bisogna azionarli in ordine. Rimettiamo tutti i volumi nella loro posizione iniziale e proviamo a spostarli in ordine: dalla prima stazione alla quattordicesima.»

«E… siamo in grado di risalire all’ordine esatto?»

«Ci possiamo provare. Guardiamo attentamente tutti i volumi della serie.»

«Mah!» esclamai sfiduciato.

Illuminavamo un libro per volta e lo commentavamo insieme.

«Qui si vede Gesù che viene messo nel sepolcro. Questo è il volume numero quattordici», disse Roberta con decisione.

Vagliammo uno per uno tutte le immagini poste nel dorso dei nostri libri. Provammo procedendo per esclusione. Tutte le immagini contenevano al loro interno la croce. Tutte tranne l’ultima, quella del sepolcro, e quella che per noi rappresentava essere la prima. Vi erano sette personaggi. In fondo, addossato al tempio c’era Pilato. Lo si capiva in quanto si intravedeva un bambino che gli versava l’acqua con la quale egli si lavava le mani. Alle spalle di Pilato c’erano due soldati. Davanti c’era Gesù che veniva tenuto da due individui. Quello che gli stava dietro era di sicuro un soldato mentre quello che gli stava davanti non si capiva se era anch’egli un soldato oppure qualcuno che intendeva aiutarlo.

Convinti che questa immagine rappresentasse la prima della serie, spingemmo il “libro numero quattordici” e tirammo in fuori quello che battezzammo come “libro numero uno”.

«E ora?» mi chiese Roberta.

«Dobbiamo individuare il libro numero due. Non credo di essere in grado di ordinare tutte le stazioni. Forse, se ci fosse scritto qualcosa del tipo “Gesù cade per la prima volta”…»

Mi permisi una pausa e ripresi. «Ma, anche in quel caso, come facciamo a distinguere la prima caduta dalla seconda?»

«E dalla terza…» aggiunse la mia ragazza.

«Ah, ce n’è anche una terza?»

«Pare proprio di sì.»

«Allora siamo proprio a posto!» conclusi.

«Cominciamo a ragionare», riprese Roberta. «Le immagini nelle quali Gesù è sulla croce sono tra le ultime in quanto le cadute vengono indubbiamente prima della crocifissione.»

Individuammo il “libro numero tredici”.

Si vedeva la base della croce e una scala appoggiata a essa. In primo piano si distinguevano tre donne, una delle quali era Maria per via della testa contornata da una aureola. Si trattava della deposizione di Gesù.

Segnammo in un block notes l’ordine dei libri e la loro posizione. Quelli ai quali avevamo attribuito un numero li tirammo in avanti anche se erano fuori sequenza.

Trovammo anche il “libro numero dodici”: Gesù morto in croce. Raffigurava Gesù sulla croce e diverse persone che pregavano per lui.

Continuando a ragionare, individuammo anche il “libro numero undici”. L’immagine che osservavamo illuminandola con le nostre torce non lasciava spazio a dubbi. Si vedeva Gesù che veniva inchiodato alla croce.

La decima stazione non fu difficile da trovare grazie al nostro ragionamento. Gesù indossava per metà la sua veste. Gli uomini accanto a lui gliela toglievano di dosso. Evidentemente si trattava del momento prima di crocifiggerlo.

Restavano otto libri da ordinare. In ognuna delle immagini c’era il Redentore che portava la sua croce. In una di queste si intravedeva un lembo del tempio. Doveva essere la seconda stazione. Quella che seguiva il “Gesù condannato a morte”. Battezzammo questo libro come “il libro numero due”: Gesù caricato della croce.

Rimanevano da ordinare sette libri, tre dei quali erano relativi alle tre cadute. Ci ricordammo che il cireneo aiutò il Salvatore dopo che egli cadde per la prima volta ma non ci ricordavamo se fu subito dopo la caduta o soltanto dopo che Gesù ebbe incontrato la sua SS. Madre. In questo modo sapevamo che l’immagine contenente il cireneo doveva necessariamente seguire quella della prima caduta o quella dell’incontro con Maria. Il problema era quello di individuare il libro della prima caduta ma non eravamo in grado di ordinare le immagini relative alle cadute.

Le nostre torce illuminavano ora questa ora quell’immagine senza che noi riuscissimo a risolvere l’enigma.

Sembrava di partecipare a un gioco. Avevamo alcuni elementi tramite i quali risalire all’esatta sequenza.

[Continua…]


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Per info sull’autore e i suoi libri consultate il sito www.salvatorepaci.com

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