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“Biglietto di andata e ritorno” di Salvatore Paci – Capitolo 5

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Biglietto di andata e ritorno

un thriller di Salvatore Paci

Capitolo 5

«Molto interessante», disse Roberta. «Davvero molto interessante.»

In quel preciso momento sentimmo i passi di Francesca.

«Allora, novità?»

Armato di tanta pazienza aggiornai mia cognata su tutto quello che era successo. Fui sintetico ma non dimenticai nessun particolare. Decisi di non parlarle del contenuto delle prime due lettere della cartella gialla per darle il piacere di leggerle con i suoi stessi occhi.

«E tu?» le chiesi. «Hai decifrato il documento del programmatore?»

«Purtroppo no. Dopo qualche tentativo mi sono arresa e ho pensato all’esame che mi aspetta il mese prossimo.»

«Che ne dite di rivedere tutto quanto insieme e di fare il punto della situazione?»

Fu la mia ragazza a fare la proposta e noi accettammo di buon grado. Disposi al centro del tavolo la lettera scritta da Alessandro e presi la parola.

«Dobbiamo assolutamente capire cosa si nasconde dietro queste parole. Innanzitutto è scritto che la chiave di tutto si ottiene unicamente leggendo quelle righe e che bisogna trovare la cadenza esatta. Ma… cosa intende per cadenza? Nel gioco del lotto la cadenza indica la cifra dell’unità. Ad esempio il 15 è un numero di cadenza cinque mentre il 16 è un numero di cadenza sei. Se un numero è formato da una sola cifra, come ad esempio il numero 8, la cadenza è determinata proprio da quell’unica cifra. L’otto è un numero di cadenza otto. Quindi, se Alessandro fa riferimento a questo tipo di cadenza… qual è quella esatta? Inoltre dice che nel Lotto non esistono numeri perfetti ma bisogna cercare quello perfetto e che non bisogna prendere tutto ma le primizie.»

Nella stanza regnò il silenzio. Guardavo le due sorelle immerse nel nostro problema. Francesca fissava un punto al di là della finestra mentre Roberta aveva occhi e riccioli sulla lettera. Nella mia mente, intanto, stava nascendo un’idea. È difficile spiegare quello che stava succedendo; i pensieri passavano così velocemente che non mi davano il tempo di capire. Sentivo di essere a un passo dalla soluzione ma non riuscivo a fermare quel vertiginoso fluire di cadenze, numeri e primizie, diventate già immagini volteggianti dentro la mia testa. Erano entità senza peso ma con una forma. Talvolta quasi le afferravo ma, un istante dopo, si allontanavano perdendo definizione e consistenza. Volontariamente puntai il mio sguardo sulla lettera. Era l’unico modo per rallentare l’attività del mio cervello. Cercai di analizzare quelle poche idee che ero riuscito a cogliere nel turbinio di immagini che mi aveva quasi stordito qualche secondo prima.

Avevo capito. Sì, c’ero arrivato.

«Forse…»

Le due sorelle mi guardarono.

«Cadenza esatta, “cercare il numero perfetto”, “prendere le primizie”. Forse ho capito.»

«Cosa hai capito?» chiese Francesca.

«Forse tutto. Ho bisogno di una penna e di un foglio di carta.»

Entrambe si precipitarono fuori di quella stanza, alla ricerca di ciò che mi serviva.

«Conosciamo il significato della parola “cadenza” nel Gioco del Lotto e sappiamo che bisogna trovare il numero perfetto. Qual è per antonomasia il numero perfetto?»

«Il tre», risposero quasi all’unisono.

«Bene. Secondo me, quando Alessandro scrive che non bisogna prendere “tutto” per buono ma soltanto le “primizie”, vuole avvertirci del fatto che bisogna prendere soltanto le iniziali di alcune parole. Ma… quali parole? Quelle che hanno cadenza tre. Adesso sto assegnando alla prima parola il numero uno, alla seconda il numero due e così via. In questo modo la parola “LE” è la numero tre e “abbiamo” è la numero tredici. Sto prendendo in esame soltanto le parole la cui numerazione finisce con un tre. Vi faccio vedere.»

Cominciai a scrivere nel foglio

sono = 1

molte = 2

le = 3

cose = 4

da = 5

scoprire = 6

in = 7

questo = 8

gioco = 9

che = 10

ancora = 11

non = 12

abbiamo = 13

«È chiaro? Francesca, per piacere dimmi qual è la prossima parola che dobbiamo prendere in considerazione!»

«“trovare” che è la numero ventitre.»

«Bravissima. Tu, amore mio, dimmi qual è la prossima.»

«“alcun” che è la trentatreesima.»

«Okay, allora continuo io. Le parole utili sono: le, abbiamo, trovare, alcun, sia, sappia, anni, suggeriscono, un, infatti, ciechi, riuscirai, esasperante, dovrai, universalmente, le occultare, non, io. Se prendiamo in considerazione soltanto le iniziali, che Alessandro chiama “primizie”, otteniamo la frase “latassasuicreduloni”. Sono sicuro che questa è la password per aprire il file zippato. Per piacere, accendete il computer.»

Quando il PC si avviò inserii il floppy.

Cliccai su risorse del computer.

Su Floppy da 3,5 pollici.

Su Dati.zip.

Si aprì la maschera di Winzip.

Cliccai su extract.

Scelsi di estrarre il file sul desktop.

Mi chiese la password e inserii “latassasuicreduloni”.

Si aprì un file pieno zeppo di numeri.

La prima riga era composta dalla seguente sequenza di cifre:

049046083097098032048050047048051047049057057054032032050048046051055046054049046054055046053048046053051046054053046055053046056057046054056032032065032032051055046056057032115117032080065032032050176032099111108112111032040083097098032049054047048051047049057057054041

La seconda da queste altre:

049046083097098032048054047048052047049057057054032032051056046053053046055057046056053046054056046055049046056051046048051046049055046056054032032065032032053053046055049032115117032080065032032050176032099111108112111032040083097098032050048047048052047049057057054041

Restammo per qualche secondo senza parole, cercando di capirci qualcosa.

«Tutte le righe sono uguali», affermò Francesca.

«Sì, è vero ma… no, non sono uguali», esclamò Roberta con gli occhi incollati al monitor.

«Sembrano uguali», riprese la mia ragazza, «ma cambiano alcune cifre. Cosa ci nasconde questo file?»

«Ragazze, prendiamo in esame le prime due righe. Le prime ventitré cifre sono identiche.

La serie “04904608309709803204805” è comune alle prime due righe.»

«Guardando bene», intervenne Francesca, «si vede che da una riga all’altra ci sono piccolissime differenze.

Ad esempio, dopo la serie iniziale “04904608309709803204805” che è comune alle prime due righe, c’è una sola cifra che differisce. Nella prima riga c’è “0” mentre nella seconda c’è “4”. Continuando, troviamo la stringa “04704805” che è pure comune. Poi abbiamo la cifra “1” nella prima riga al posto della “2” che è nella seconda. In successione abbiamo “04704905705705403203205” che è comune. E così via.»

«Un’altra particolarità che sto notando», disse Roberta indicando con l’indice un punto nello schermo, «è che tutte le righe terminano con la stessa stringa “041”». L’ultima cosa che voglio aggiungere è che ci sono le righe 20, 36, 44, 47 e 50 che sono più lunghe delle altre. Hanno infatti», e cominciò a contare, «nove caratteri in più.»

«È vero. Cosa significheranno questi numeri?»

«Propongo una cosa: io vado a studiare per l’esame del mese prossimo. Voi, stampate tre copie di questo documento. In questo modo possiamo analizzarlo anche quando non siamo insieme.»

«Proposta accettata.»

Mi affrettai a stampare quel file.

Fino a quel momento, anche se non ci avevamo fatto minimamente caso, la radio aveva diffuso le note di una serie di canzoni. Adesso, però, una voce concitata attirava la nostra attenzione.

Sono le 21.57 e vi diamo il triste annuncio: alle 21.37 è morto, nel suo appartamento privato, Giovanni Paolo II. Il Papa è tornato nella casa del Padre.

L’annuncio della morte del Santo Padre è stato accolto in Piazza San Pietro con un lungo applauso. Mentre molti si tengono il volto bagnato dalle lacrime, altri continuano a guardare la finestra al terzo piano del palazzo apostolico che è stata accesa.

Migliaia di fedeli riuniti in Piazza San Pietro stanno recitando l’Eterno Riposo insieme al segretario di Stato Vaticano, cardinale Angelo Sodano.

Nella nostra stanza, il silenzio. Non avevamo nulla da dire. Avevamo amato questo grande uomo, e la sua morte da un lato ci dispiaceva ma dall’altro ci rasserenava; le sofferenze del Santo Padre erano finite. Dopo aver spento la radio ci trasferimmo nel salotto per accendere il televisore. Ogni canale trasmetteva, in vari modi, la stessa notizia. Anche i filmati erano quasi tutti uguali.

Sono le 22.39 e il campanone di San Pietro suona a morto. È il segnale che annuncia al mondo la morte del papa.

Il Governo italiano dichiara tre giorni di lutto nazionale.

In Polonia i rintocchi della grande campana di Sigismondo stanno annunciando alla città di Cracovia la morte del Papa. La notizia era giunta alle ventidue e la gente si è immediatamente riversata per le strade, nel piazzale davanti all’arcivescovado e sta affollando la collina dell’antica cattedrale del castello del Wawel.

Francesca, con le lacrime agli occhi s’isolò nella sua stanza e restammo solamente io e Roberta. Avevo la sua testa sulla mia spalla e le accarezzavo il viso. Dopo circa un’ora di notizie televisive e di commenti positivi sulla sua figura decisi di andarmene a casa. Salutandomi mi disse che avrebbe continuato a seguire qualche altro servizio alla TV.

Con il vetro abbassato percorsi la stradina dissestata che collegava la villa di Roberta con viale Stefano Candura. Desideravo l’aria fresca sul viso per risvegliarmi da quel profondo senso di malinconia che si era impossessato di me. Guardavo tutto ciò che mi scorreva intorno. Un gatto che passava tra le sbarre di un cancello, le automobili che sfrecciavano per il viale, un signore con una pesante borsetta di plastica che stava chiudendo la sua automobile, il gestore di un bar che stava abbassando la saracinesca.

Tutto fluiva accanto a me. Era morto il Papa ma il mondo continuava a vivere.

Il mondo non si ferma.

Non aspetta.

Prima o poi tutto finisce e, inevitabilmente, se non hai lasciato nulla di importante su questa terra vieni dimenticato.

Non era il caso di Giovanni Paolo II: troppo grande per essere dimenticato.

Dopo aver portato Mia fuori per i bisognini, mi spogliai, feci una doccia, mi asciugai e indossai il pigiama. Mi trasferii nel mio studio. Con le dita accarezzai il quadro raffigurante il Sacro Cuore di Gesù e iniziai la lettura della terza lettera.

Carissimo figliuolo, in questo momento sono le ventitré in punto e, se sarò abbastanza veloce, riuscirò a raccontarti un bel po’ di cose prima di dover abbandonare questa stanza.

Nell’ultima lettera ti ho parlato di un rumore di passi sentito a dieci minuti dall’inizio della registrazione.

Ho riascoltato più volte quel nastro, nella speranza di percepire qualcosa in più rispetto a quanto sentito prima. Ogni volta che udivo quei passi sentivo un brivido alla schiena ma questa sensazione di paura è andata gradualmente scemando.

Decisi di tentare nuovamente l’esperimento e di effettuare una nuova registrazione. Qualche minuto dopo la mezzanotte ero già a letto mentre l’apparecchio stava compiendo il suo dovere.

Non potendo prendere sonno, sono tornato nel mio studio non appena ho udito scattare il pulsante REC dell’apparecchio.

Mi sono seduto, ho riavvolto il nastro e ho indossato la cuffia. Avevo paura a iniziare l’ascolto. Avvertivo l’oscurità che mi circondava come un pericolo. La luce emanata dal monitor del mio computer allungava e accorciava le ombre degli oggetti presenti nella stanza. Con la coda dell’occhio mi sembrava di vedere la bottiglia di whisky muoversi. Poi la fissavo e mi accorgevo che si trattava soltanto di un gioco d’ombre e di colori. Ho spostato il mouse per disattivare lo screen saver e infatti l’ombra della bottiglia si è fermata.

Temevo, una volta premuto il tasto PLAY, di non poter avere il controllo completo della stanza. Da quel momento in poi non avrei potuto sentire suoni diversi da quelli che sarebbero provenuti dalla registrazione. Mi sarei sentito come un’automobile senza allarme, come una tartaruga senza il suo guscio, come un cucciolo di cane senza la sua mamma. Però, nonostante la paura, capivo che dovevo trovare il coraggio per cominciare l’ascolto.

Mi sono messo con le spalle al muro, accanto alla finestra. Preferivo poter dominare l’intera stanza e, soprattutto, poter tenere sotto controllo la porta che avevo di fronte.

Mi sentivo inutile. Pensavo che un uomo della mia età non avrebbe dovuto temere ciò che non esiste… se davvero non esiste.

Mi sono fatto vigliaccamente coraggio bevendo mezzo bicchiere di whisky. In pochi secondi ho sentito i miei nervi rilassarsi e la mia mente diventare piacevolmente meno lucida.

Ho trovato il coraggio di premere quel dannato PLAY. Ascoltavo con attenzione ma non riuscivo a distinguere niente di importante. Soltanto fruscii. A fine nastro era finita anche la mia riserva di coraggio. Mi sono tolto la cuffia con un senso di liberazione. Come un somaro che viene liberato dal suo carico. Ero tutto sudato, madido e ricominciavo a tremare. Mi consolai nuovamente con un bicchiere di whisky. Mi tornò un briciolo di coraggio e, come un novello paracadutista che finalmente trova il coraggio per saltare nel vuoto, indossai nuovamente le cuffie e riavvolsi il nastro per un altro round di ascolto.

Cominciai ad avvertire un senso di stanchezza. Forse a causa dell’ora tarda o dell’alcol che cominciava a intorpidirmi più del dovuto. Credo di essermi anche addormentato per qualche minuto.

A un certo punto mi sono svegliato. Qualcosa mi aveva sottratto alle braccia di Morfeo. Mentre i miei sensi lottavano contro il sonno, avvertivo qualcosa che mi inquietava. Si trattava di una musica appena percettibile. Dapprima pensai a un suono proveniente dall’esterno ma poi notai che i suoni che sentivo erano strani e non provenivano dall’esterno ma proprio dalle cuffie. Alzai al massimo il volume. La musica, perché mi convinsi che si trattasse di una musica, arrivava mista al fruscio di fondo che adesso era aumentato di volume insieme alle note. Cercai di concentrarmi e mi parve di sentire una voce. Sì, era una voce che cantava parole che non capivo. L’attacco d’ogni singola parola era inizialmente lento e trascinato, mentre alla fine diveniva più forte e poi s’interrompeva di colpo. Era come se un violinista cominciasse a suonare dolcemente una nota, poi iniziasse a dare una maggiore pressione e infine fermasse bruscamente il braccio.

Ero assonnato, eppure grazie a quel barlume d’attenzione che mi era rimasto, notai che anche la musica veniva emessa nella stessa maniera. Le parole, completamente incomprensibili, mi trasmettevano ansia, paura, sgomento. Non erano parole italiane e non erano neanche inglesi o francesi o tedesche o spagnole. Non erano di nessuna lingua a me conosciuta ma… era un suono profondo, terribile, cupo.

Pensai ad alcuni film del terrore nei quali si sentivano cori demoniaci e questi… erano molto simili.

Sudavo.

La canzone, se di canzone si trattava, ancora non finiva.

Ed io non finivo di tremare.

Dopo due o tre minuti che mi parvero interminabili, spensi l’apparecchio e staccai lo spinotto della cuffia.

Liberai per la seconda volta il capo da quel peso divenuto enorme e me ne andai a letto, recitando mentalmente una Ave Maria che mi avrebbe dovuto proteggere dal male che adesso avvertivo in quella stanza.

Spostandomi mi sentivo seguito, osservato e braccato da un’entità a me invisibile. Giravo il capo ripetutamente a destra e a sinistra per guardare ogni angolo d’ogni stanza che stavo attraversando.

Ma lui non si manifestava. Attendeva nel rumoroso silenzio di quella notte. Era lì e lo percepivo. Animava il buio e le ombre e le usava per farmi cadere nel precipizio della disperazione.

Forse non agiva perché stavo pregando. Forse preferiva fare come quei gatti che rimangono per ore immobili e silenziosi a un passo da una tana, in attesa di colpire la loro preda.

Non è vero che l’irreale non esiste. Se ci credi… esiste. Lo hai creato dentro te. E dentro me, questo essere incorporeo cominciava a mettere le sue radici il cui sviluppo, ne ero sicuro, poteva essere rallentato soltanto dalla luce e dalla preghiera.

Riesci a creare nella tua mente l’immagine di tuo padre mentre prega?

Quante volte mi hai visto pregare?

Da piccolo era la mamma che t’insegnava le preghiere. Era lei che ti portava in chiesa. Io ho sempre derogato a lei questo compito. Non perché fossi ateo ma soltanto perché sono sempre stato un cattolico pigro.

E adesso…

Raggiunsi la stanza da letto dopo qualche secondo che sembrò senza fine. Mi rifugiai sotto le lenzuola e cercai il contatto fisico con il corpo di tua madre. Mi ricordo che mi allungò una mano che immediatamente raccolsi. Credo che abbia pensato a un moto d’affetto e che non sia mai balenato nella sua mente che, invece, si trattasse di semplice paura.

Non puoi immaginare quanto sollievo mi diede quel contatto. Piansi in silenzio, arreso a un sentimento che per anni avevo snobbato. Lei si girò. Sentii la sua mano sulla mia spalla. Si muoveva alla ricerca del mio viso che trovò bagnato. Si fermò un istante e poi iniziò ad accarezzarmi. Mi addormentai in quell’oblio di tenerezza e comprensione. Protetto dalle carezze di una moglie che, invano, mi aveva sempre aspettato. Ogni notte. Per mesi. Per anni.

A domani, caro!

Quando finii di leggere, ero tutto un fremito. Come previsto, la lettura mi aveva affascinato ma, al tempo stesso, impressionato ed eccitato. M’immedesimai in Gheppio e, come lui, avvertivo la presenza degli oggetti intorno a me, come se ognuno di essi fosse dotato di una vita propria, immobile ma reale. Mi guardai intorno e mi sentii terribilmente stupido perché tutto era al proprio posto. I libri, i CD, le foto di Roberta appese alla parete di fronte, l’orologio rossonero del Milan fissato qualche centimetro più a sinistra.

Tutto stava al suo posto però tremavo.

Cercai con lo sguardo il quadro del Sacro Cuore di Gesù. Mi avrebbe dato sicurezza.

Così pensai. Invece accadde qualcosa. Qualcosa d’impressionante che non riuscii a capire immediatamente.

Distolsi lo sguardo.

Ebbi la sensazione che gli occhi dell’immagine si fossero mossi.

Possibile?

Con gli occhi chiusi mi dissi che non era verosimile.

Per anni avevo affidato a quel disegno i miei segreti e le mie paure. La mia mente malata aveva trovato più di una volta rifugio in quello sguardo sereno ma severo, paterno ma imponente. Uno sguardo nel quale leggevo a volte un sorriso di approvazione e a volte uno sguardo dissuasivo. La parte sana di me mi diceva che ero io a interpretare quell’immagine statica, secondo quello che era il mio animo, mentre la parte malata di Antonio La Mattina vi leggeva un rimprovero, un plauso, un’indignazione, una commiserazione. Nel passato avevo sempre guardato Gesù per leggere un’espressione ma… in un’immagine immobile. Adesso… cos’era cambiato adesso? Cosa stava accadendo?

Con gli occhi chiusi e tremando cominciai a pregare.

Risuonavano nel mio cervello le parole che avevo appena letto: “Forse non agiva perché stavo pregando.” Mi convinsi che non era possibile che l’immagine si fosse mossa. Non potevo mescolare il sacro con il profano. Continuando a pregare, ormai ad alta voce, trovai il coraggio per incrociare lo sguardo di Gesù.

Ci guardammo.

I Suoi occhi erano immobili, come sempre. Eppure, prima cos’era successo? Era stata la mia mente deviata a vedere quello che non esisteva?

Inclinai un poco la mia testa verso destra. Poi verso sinistra.

Mi tranquillizzai. Avevo capito.

Guardando il quadro dal basso e facendo attenzione, potevo vedere, sul vetro che proteggeva l’immagine, il riflesso del poster che da anni stava appuntato alla parete adiacente quella del Sacro Cuore. Spostando la testa mi era sembrato di aver colto un movimento negli occhi di Gesù, mentre, invece, si trattava di un gioco di riflessi.

Ciò che mi trascinavo da quando mia madre aveva cominciato a sbagliare, continuava a farmi stare male. Esistono solo le cose spiegabili scientificamente, mi dissi per tranquillizzarmi. Ciò che è magia, esoterismo, soprannaturale, non esiste. Dentro la mia testa, come nel finale dei film, quando scorrono le scritte con i nomi degli attori, passavano le frasi di Gheppio:

Non è vero che l’irreale non esiste. Se ci credi… esiste. Lo hai creato dentro te.”

Ma ero stato io a creare il mio male? O le frasi stupide, pronunciate quotidianamente da una persona che senza saperlo stava rovinando l’equilibrio psicologico del figlio? Il risultato finale ero io: quest’uomo che nascondeva in sé il marciume di una mente irrequieta. Il mio disagio psichico mi faceva avvertire ciò che non c’era, vedere in movimento quello che invece era immobile. Capivo che bastava un niente per gettarmi nel baratro del panico. Una lettura, un film, un’atmosfera particolare. Bastava poco.

Tutto era al suo posto. Tranquillo ma, nel cervello di chi invece non lo è, tutto sembra in attesa, in agguato.

Forse non agiva perché stavo pregando.”

Un rumore.

Trasalii.

Avevo sentito un colpo.

La porta della mia stanza.

Un altro colpo.

Sì. Avevo udito un rumore ma a casa non c’era nessuno.

Il suono secco di qualcosa che aveva colpito il legno non proveniva dal portone d’ingresso ma dalla porta del mio studio.

Sentii bussare ancora, ritmicamente. Il mio cuore bussava alla stessa velocità.

Decisi di affrontare la situazione nello stesso modo di sempre, cercando di vincere la paura con il coraggio. Mi diressi verso la porta, afferrai la maniglia, aprii la porta e la tirai velocemente verso me. Ero pronto a tutto e sapevo di dover agire ancor prima di pensare alle conseguenze del gesto. In quella frazione di secondo acquistai la forza di un leone. Non di un leone che attacca per mangiare: la forza di un gatto che si sente con le spalle al muro e usa gli artigli per difendersi.

La porta si spalancò.


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Per info sull’autore e i suoi libri consultate il sito www.salvatorepaci.com

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