“Biglietto di andata e ritorno” di Salvatore Paci – Capitolo 11
Biglietto di andata e ritorno
un thriller di Salvatore Paci
Capitolo 11
«Sì, ma dimentichi che proprio accanto al Castello c’era la chiesa di Santa Maria la Vetere. Qui nella mappa è riportata l’icona del castello ma evidentemente i cunicoli partivano dalla vecchia chiesa. E c’è di più, guarda.» Presi una matita e tracciai una linea che congiungeva il Castello di Pietrarossa con L’Abbazia di Santo Spirito, quest’ultima con il Convento dei Cappuccini e infine, dal Convento al Castello di Pietrarossa.
«Dicci che disegno ne è venuto fuori!»
«Un triangolo.»
«Non un triangolo ma il triangolo. Quello che abbiamo davanti agli occhi è il disegno che identifica l’occhio di Dio. E non è un caso se la linea che congiunge il convento dei Cappuccini con il Castello di Pietrarossa passa esattamente sotto San Sebastiano e la Cattedrale.»
Giuseppe restò a bocca aperta. Roberta fece finta di non rimanere colpita dalla mia spiegazione ma si vedeva chiaramente da come mi guardava che era rimasta affascinata dal mio discorso.
«E prima di salutarmi mi ha sussurrato all’orecchio una frase.»
«Quale?» mi chiese Gheppio Junior.
Non risposi subito. Mi piacque tenerlo in ansia.
«Quale?» ripeté.
«Non tornare a mani vuote! Prima ancora mi aveva detto “Restituiscici quello che ci appartiene”. Evidentemente si riferiva alla Croce Santa. Frate Arcangelo desidererebbe che tale Croce tornasse nelle mani della Santa Chiesa.»
«Dunque voi pensate che mio padre possa trovarsi laggiù», disse puntando l’indice verso il cancello del cimitero.
«Sì; c’è un’alta probabilità di trovarlo morto, però. Mi dispiace.»
«Comunque sia, cosa c’è da fare?»
«Ho un piano», esordii. «Domani mattina, attrezzati di tutto punto, entreremo dentro l’urna e scenderemo insieme le scale che ho disceso poco fa. Avremo circa sette ore di tempo perché ogni giorno, alle diciassette, il custode invita i visitatori a uscire e chiude tutti i cancelli. Necessitiamo di alcune cose.»
Tirai fuori dal mio marsupio una penna e un foglio di carta e cominciai a scrivere.
«Tre torce elettriche con relative batterie. Io ne ho due e voi?»
«Io ne ho una», disse Giuseppe.
«Bene, portala.»
«Io porto anche due walkie-talkie. Ci potrebbero servire. Poi, vediamo un po’… dei guanti monouso e la macchina fotografica digitale. Ricordatevi di portare qualsiasi cosa vi possa servire durante quelle ore e, dato che sicuramente ci sporcheremo, vestitevi di conseguenza.»
***
Domenica, 10 Aprile 2005
Non appena parcheggiammo l’automobile davanti all’ultimo cancello del cimitero, vedemmo arrivare anche Giuseppe.
«Abbiamo portato tutto quanto?» domandai.
«Io sì», rispose Castrogiovanni Junior, «e voi?»
Ci incamminammo, ignari della novità che il destino ci aveva riservato.
«Prego, signori. Accomodatevi dal mio collega per ritirare il pass.»
A parlare era stato un impiegato del cimitero che con l’indice ci indicava un suo collega.
«Il pass?» chiesi sbalordito. «È una novità di oggi, vero? Perché ieri siamo entrati senza alcun pass.»
«Esattamente, signore», rispose l’impiegato più giovane. «Quasi ogni settimana capita che qualcuno rimanga chiuso dentro il cimitero per sbaglio. Non sentono il suono della sirena e noi, involontariamente, li chiudiamo dentro. Il mese scorso un’anziana ci ha denunciati per sequestro di persona. Vi immaginate? Non solo si attardano impedendoci di chiudere in orario e andare a casa e, per giunta, quando rimangono chiusi dentro cercano di rovinarci. Per tutelarci, il consiglio comunale ha introdotto questa novità: per accedere all’interno del cimitero bisogna essere muniti di pass. Il visitatore lascia un documento di identità che gli viene restituito all’uscita. In questo modo, prima di chiudere il camposanto ci accorgiamo se all’interno c’è ancora qualcuno, e chi.»
Il discorso filava liscio come l’olio però per noi si trattava di uno spiacevole imprevisto. Avevamo accuratamente evitato di passare dal cancello principale per non farci vedere dallo zio di Roberta ed eravamo incappati in un controllo ancora più severo.
«Adesso siamo davvero obbligati a tornare qui prima della chiusura», dissi una volta entrati con i pass. «Senza questa novità avremmo avuto anche la possibilità di pernottare dentro oppure di scavalcare uno dei cancelli dopo il calar della notte.»
«Sarebbe stato bellissimo!» ironizzò Roberta.
«Lo so che sarebbe stata una cosa orrenda ma», guardai Giuseppe, «era una brutta opzione ma era pur sempre un’opzione, no?»
Giuseppe abbassò la testa in segno di approvazione.
Alle dieci e sette minuti eravamo già davanti la cappella di Sebastiano pronti a entrare. Roberta e io indossavamo dei pantaloni di jeans mentre Giuseppe si presentò con la tuta che probabilmente usava per i suoi lavoretti domestici. Era blu scuro con le bretelle incrociate sulla schiena. Ancora una volta ebbi la sensazione che per lui il tempo era stato meno clemente che con me, lasciandogli addosso, giorno dopo giorno, i segnali di una giovinezza che si stava allontanando.
Una volta entrati, ripetemmo le stesse operazioni del giorno precedente ma prima di tutto badammo a chiudere a chiave dall’interno il portone della cappella. Un po’ di luce riusciva a farsi spazio tra le finestre sporche situate nella parte alta della costruzione e, in quel chiaroscuro, la stanza acquisiva un aspetto ancora più tetro. Tutte le cornici e gli accessori in marmo applicati sulle lapidi proiettavano ombre che si allungavano in dipendenza della variabile luminosità esterna. Per non impressionarmi ulteriormente spostai la mia attenzione sul cuore di marmo dell’urna di Sebastiano e lo spostai. Azionai la leva e sollevai la lastra che fungeva da coperchio per l’urna. Non appena il coperchio scivolò di lato scavalcai il marmo, accesi la torcia e scesi le scale. Pretesi che Roberta scendesse subito dopo di me. In questo modo mi sarei sentito più tranquillo sapendo che aveva le spalle coperte da Giuseppe. Giungemmo con tranquillità alla base della scalinata. Puntai la torcia davanti a me e illuminai ciò che apparve dinanzi ai nostri occhi. È difficile descrivere l’emozione che provai sapendo di essere dentro un budello, nelle viscere della terra, nel buio più totale e sentendo, nell’assoluto silenzio, solamente i nostri respiri.
Non ero il solo a manovrare la torcia. Anche Roberta e Giuseppe stavano esplorando ogni recondito angolo di quella galleria. Davanti a noi partiva un lungo cunicolo del quale riuscivamo a vedere soltanto la prima ventina di metri. Il pavimento era composto da mattoni rettangolari collocati a spina di pesce mentre le mura erano state realizzate con grossi blocchi di tufo disposti gli uni sugli altri con filari disposti alternativamente di testa e di taglio. Si avvertiva il tanfo caratteristico degli ambienti molto umidi.
Camminammo in avanti e ci accorgemmo che la galleria disegnava una mezzaluna, curvando progressivamente verso la nostra destra. Io e Giuseppe fummo costretti ad abbassarci un po’ per non urtare il tufo con la testa mentre la mia ragazza riusciva a muoversi più liberamente. Circa cinquanta metri dopo fummo costretti a fermarci; la galleria era finita. Ciò che ci era sembrato una via di accesso per i cunicoli di Caltanissetta si stava rivelando niente di più che una galleria cieca. Il muro che avevamo davanti era solido, della stessa consistenza del resto delle pareti della galleria. Mi chiesi il perché di tutto ciò. Se Sebastiano fosse stato costretto a interrompere i suoi lavori, non si sarebbe preso la briga di costruire quel muro e lo avrebbe lasciato grezzo. Adesso si sarebbe presentato davanti ai nostri occhi come un insieme di rocce e di terra. Mi convinsi che ci doveva essere un modo per proseguire la nostra escursione e cominciai a esaminare attentamente ognuno dei mattoni di quel muro.
«Possibile che sia finito tutto qui?» domandò con disappunto Roberta.
«Sembrerebbe proprio di sì», rispose Giuseppe.
«È impossibile!» esclamai. «Ci deve essere un modo per passare.»
«Esaminiamo per bene questa parte di galleria», aggiunsi. «Deve pur esserci qualcosa.»
I coni di luce delle nostre torce si muovevano disordinatamente, accarezzando le pietre intorno a noi.
Dopo aver focalizzato per qualche tempo su una zona della parete mi accorsi di un’incisione.
«Guardate qui», dissi con gli occhi fissi in avanti. «Su questa pietra rettangolare c’è scritto qualcosa. Avvicinatevi perché è proprio piccola.»
Lessi ad alta voce: «Promoveatur ut amoveatur. Che vorrà dire?»
«Promoveatur sembra indicare una promozione, il muovere qualcosa in avanti. Ut significa certamente affinché e amoveatur sembra indichi un movimento di rimozione. Antonio, cosa ne pensi?»
«Che dovremmo provare a spingere la parete.»
Neanche finii di parlare che Giuseppe era già al lavoro. Appoggiò la spalla destra alla parete e cominciò a spingere con forza.
Ma non accadde nulla.
Le nostre torce frugarono la parete millimetro per millimetro, alla ricerca di qualcosa che ci potesse consentire di andare avanti con la nostra ricerca ma davanti ai nostri occhi non si scorgeva altro che polvere e ragnatele.
«Spingiamo la mattonella con l’iscrizione», ordinai a Castrogiovanni Junior.
Spingemmo forte e questa si mosse impercettibilmente.
Nient’altro.
«Proviamo ancora.»
La mattonella si spostò ancora di qualche centimetro e ci regalò un suono assai gradito: quello di un meccanismo che si sganciava. La parete che fino a un paio di minuti prima ci stava negando il passaggio adesso si stava aprendo come una porta. Non ci fu bisogno di applicare una forza eccessiva. Qualche secondo dopo, davanti ai nostri occhi si aprì un altro scenario.
Ci ritrovammo in una stanza circolare dal diametro di circa dieci metri realizzata con lo stesso criterio utilizzato per la costruzione della galleria appena attraversata. L’unica differenza era che qui si notava chiaramente che il materiale impiegato era davvero vecchio. Il fatto che i due ambienti fossero stati realizzati con la stessa tecnica non poteva essere una semplice coincidenza. I casi erano due: o Sebastiano aveva inizialmente costruito una galleria grezza che aveva poi rifinito solo dopo aver visto questa stanza circolare oppure era riuscito entrare in quest’ultima stanza accedendovi da non so dove.
«Aspettate un attimo», dissi prendendo uno scalpello dal mio zaino e incastrandolo sotto la porta di pietre. «Non vorrei che si chiudesse bloccandoci la via del ritorno.»
Mosso il primo passo in avanti notammo un raggio di sole sul pavimento in pietra. Guardai in alto. La luce proveniva da una fessura presente nel tetto. Immediatamente alla mia destra c’erano i gradini in marmo di una scala. Salii quei pochi gradini e guardai da vicino lo spiraglio dal quale filtrava la luce. Si trattava di un piccolo spazio tra due grosse pietre rettangolari. Cercai di guardare al di là e faticai per abituare gli occhi alla luminosità esterna. Mi spostai a destra e a sinistra con la testa e finalmente, vedendo tra le foglie di un cespuglio una costruzione che mi era familiare, realizzai che mi trovavo a pochi centimetri dal livello del terreno e che quella che avevo proprio sopra la testa era, verosimilmente, la botola che veniva utilizzata secoli addietro per scendere nei cunicoli.
«Siamo proprio sotto il Castello di Pietrarossa.»
I miei compagni di avventura non si meravigliarono particolarmente in quanto immaginavano già che ci stavamo muovendo nella zona sottostante il castello. Io, invece, mi sentivo affascinato, proiettato ai tempi del Conte Ruggero. Immaginavo la vita che scorreva nel castello, le feste, le riunioni durante le quali si decideva il destino della Sicilia. Poi pensai anche alle battaglie, al sangue versato, alle centinaia di donne arse vive perché accusate di stregoneria. Quello sotto al quale ci trovavamo era stato teatro di gioia e di dolore, di intrighi, di storie d’amore. Fu Gheppio Junior a riportarmi nel presente. Aveva visto qualcosa. Un istante dopo Roberta gli si avvicinò. Davanti a loro intravedevo qualcosa ma dovevo riabituare i miei occhi al buio. A poco a poco riuscii a mettere a fuoco ciò che avevo davanti: tre zone più scure delle altre. Capii che doveva essere il punto dal quale partivano le gallerie. Illuminai i tre archi di pietra dall’alto dei miei gradini e dissi utilizzando un tono serioso: «Mi sa che siamo proprio nel punto tanto ambito da centinaia di studiosi. Da qui partono i cunicoli che attraversano il sottosuolo di Caltanissetta. Ragazzi, questa è storia. È…»
«È vero, ma adesso da dove cominciamo?»
Bella domanda.
Mi soffermai qualche secondo con la torcia che illuminava alternativamente gli archi a tutto sesto dai quali partivano i cunicoli. Pensai a quanto lavoro dovevano aver fatto in un primo momento per scavare e poi per rinforzare queste gallerie. Scendendo mi resi conto che tutt’e tre le gallerie erano state realizzate utilizzando conci di pietra rossastra. Presi la bussola da una tasca del mio giubbotto e cercai di capire verso quale punto cardinale fossero orientate. Realizzai che puntavano a ovest.
Da quelle tre enormi bocche proveniva un alito di aria calda e molto umida. Il nostro mostro stava respirando e ci stava alitando addosso il suo fetore. Ci stava aspettando, leccandosi le labbra. Sembrava felice di avere dei nuovi ospiti dopo interminabili anni di solitudine e ci invitava a entrare, ad attraversare le sue viscere.
Ci sfidava.
Spazzai quei pensieri prima che prendessero il sopravvento sul mio coraggio e mi girai verso i miei compagni. Erano pensierosi, confusi.
«Questo deve essere il capolinea di tutti i cunicoli. I castellani vi accedevano proprio da questa stanza. Il passaggio avveniva sicuramente da questa scala. Ci sarà un sistema per salire al livello del suolo ma in questo momento a noi non interessa. Il tuo caro Sebastiano», dissi rivolgendomi a Giuseppe, «conosceva la posizione esatta di questo ambiente, altrimenti non sarebbe riuscito a sbucare proprio in questo punto. Le gallerie a quanto pare puntano a ovest. Considerato che la nostra meta è l’Abbazia di Santo Spirito dobbiamo imboccare la galleria di destra. Infatti, l’abbazia è la destinazione più a nord tra quelle possibili.»
Roberta annuiva con la testa.
«E allora andiamo», disse Giuseppe.
«Una raccomandazione: non ritengo superfluo ripetere che dobbiamo tornare alla cappella prima delle diciassette. Adesso sono le dieci e trenta. Abbiamo poco più di sei ore per cui, tra tre ore», dissi illuminando i volti dei miei compagni d’avventura, «ovunque ci troveremo, dovremo tornare. Intesi?»
Annuirono entrambi.
«E quanto dista l’Abbazia di Santo Spirito dal castello?»
«Meno di tre chilometri», le risposi dopo un istante di riflessione. «Devi considerare che probabilmente viaggeremo in linea retta.»
«Guarda sulla cartina: dovrebbe essere in scala.»
Appoggiai la mappa a terra sulle pietre che mi sembrarono meno umide e feci cenno alla mia ragazza di illuminarla con la sua torcia. Presi dalla tasca una moneta da cinque centesimi e la utilizzai come unità di misura. Stimai la distanza di poco superiore ai due chilometri e mezzo.
«Confermo», dissi. «Sono meno di tre chilometri. A mio avviso riusciremo a camminare a una velocità prossima ai due chilometri l’ora e, se tutto andrà bene, giungeremo all’abbazia tra poco più di un’ora.»
«Ma sei sicuro che la troveremo?» mi chiese Roberta.
«A questo punto sì, ne sono certo. Fino a un momento prima di aprire l’urna del nostro Sebastiano avevo ancora qualche dubbio ma adesso non più. Giuseppe, che ne pensi?»
Il ragazzo alzò le spalle e fece il primo passo in avanti.
Ci incamminammo nell’ordine che avevo deciso: io davanti, Roberta alle mie spalle e Giuseppe a chiudere il gruppo. Considerando che per proteggere la mia ragazza da qualsiasi pericolo le sarei stato sempre incollato addosso, diedi uno dei miei walkie-talkie a Giuseppe.
La prima cosa che notai percorrendo il cunicolo fu che il forte lezzo provocato dall’umidità adesso era quasi insopportabile. Poi avvertii anche il silenzio. Con i nostri passi stavamo disturbando il sonno di quelle pietre che da secoli non vedevano anima viva.
Le nostre luci si incrociavano continuamente e, spesso, le torce di Roberta e di Giuseppe, incontrando il mio corpo lungo il loro cammino, proiettavano la mia ombra sulle pareti del cunicolo.
Sussultai.
Avevo sentito qualcosa.
«Fermi!» ordinai.
«Che succede», chiese Giuseppe dalle retrovie.
«Non avete sentito niente?»
«Io no», disse Roberta. «E tu?» chiese a Gheppio Junior.
«Neanche io! Tu cosa hai sentito?»
«Un rumore.»
«Io non sento niente», disse Giuseppe e, dopo una breve pausa aggiunse «Niente, assolutamente niente.»
«Mah! Eppure ci avrei giurato.»
Continuammo a marciare. La galleria che stavamo percorrendo era in discesa e il pavimento umido e coperto di muschio non facilitava la nostra discesa. Roberta rischiò di scivolare più di una volta e in un paio di occasioni accadde pure a me. Solo Giuseppe con i suoi anfibi sembrava procedere con passo sicuro.
«Fermi e zitti. Stt! Adesso credo di sentire anch’io un rumore», disse Roberta.
Si sentiva un gorgoglio cupo, lontano. Dopo esserci scambiati un cenno d’intesa riprendemmo a camminare e il rumore aumentò di intensità.
«È questo il rumore che sentivi prima?» mi chiese.
«Credo di sì. Sì, sono sicuro: era proprio questo.»
La pendenza del cunicolo aumentò e, una cinquantina di metri dopo, fermai il gruppo.
La galleria era allagata.
Puntando la torcia vidi che l’acqua, torbida e ricoperta di uno strato di alghe di fiume, superava la metà dell’altezza del corridoio. Con i riflessi le pareti si colorarono di verde, contribuendo a rendere il cunicolo di un colore omogeneo.
«Cazzo, non ci voleva!» esclamai. «Lì davanti c’è più di un metro d’acqua. Da qui non si vede se, più in là, il livello diminuisce o aumenta.»
Mi voltai e illuminai alternativamente i visi dei miei compagni di avventura. Roberta aveva una mano tra i capelli mentre Giuseppe cercava di restare impassibile.
«C’era d’aspettarselo. Questa è una delle zone più basse di Caltanissetta ed è naturale che nel corso degli anni l’acqua sia riuscita a penetrare fin dentro i cunicoli.»
«Che facciamo?» chiese Roberta.
«Andiamo avanti», disse Giuseppe.
«Ma… avete visto che schifo?» esclamò Roberta. «È lurida e ha un aspetto viscido.»
«Hai una soluzione alternativa?» La mia ragazza non rispose. «Che ci possiamo fare? Purtroppo, dobbiamo trovare il coraggio, anzi, lo stomaco, per andare avanti. Però dobbiamo cercare di fare le cose per bene», dissi abbassandomi e immergendo un dito in quel liquido ributtante che rasentava le mie scarpe. «L’acqua non è freddissima ma non possiamo attraversare questa parte di galleria con i vestiti addosso. L’altezza media di questo corridoio è di circa un metro e settanta e, visto che tra il pelo d’acqua e il tetto ci saranno almeno cinquanta centimetri, il livello non supera il metro e venti centimetri di altezza. Una volta dentro, avremo a nostra disposizione mezzo metro per la testa e per i vestiti.»
«Per i vestiti?» chiese Roberta sgranando gli occhi. «Vorresti dire che dovremmo toglierli?»
«Preferisci indossare i vestiti bagnati per le restanti ore? E le tue eleganti scarpette firmate?» Sorrisi. «Sarai costretta a rimanere in reggiseno e mutandine. Fai finta di essere a mare. Inoltre, con questo buio non si vede niente. Ecco cosa dobbiamo fare: spogliarci e mettere i vestiti dentro i nostri zaini. Quando saremo immersi nell’acqua, terremo gli zaini più in alto possibile, per non farli bagnare.»
Roberta non trovò la forza per ribattere. La vidi abbassarsi per togliersi le scarpe mentre Giuseppe mi faceva un gesto di approvazione. Avevano recepito il mio messaggio e, l’uno con molto entusiasmo e l’altra controvoglia, si stavano preparando per l’immersione. Erano le undici e cinque minuti.
Ore 11:15
Roberta aveva raccolto i capelli in alto con un elastico ed era la prima del gruppo. Dietro di lei c’ero io e per ultimo Giuseppe. Camminavamo molto lentamente, tenendo tutt’e due le mani in alto: una serviva per sorreggere lo zaino e l’altra per la torcia. L’acqua inizialmente mi era arrivata ai polpacci, poi alle ginocchia, dopo ancora era salita fino all’inguine. Nel punto più profondo, arrivava un paio di centimetri sotto le spalle di Roberta.
Ore 11:25
Dopo un lungo tratto lungo il quale l’altezza dell’acqua era rimasta costante, con mio grande disappunto il livello cominciò ad alzarsi. Ci rimase pochissimo spazio per lo zaino e per la testa. Roberta, con l’acqua appena sotto il mento, cominciò a smaniare.
«Mi fanno male i muscoli delle spalle. Quasi non ce la faccio più a tenere lo zaino e la torcia sollevati. Sono sfinita.»
«Fatti forza! Manca poco, ormai.»
Cominciai a stancarmi anch’io ma mi limitai ad alternare l’uso delle mani per sorreggere zaino e torcia.
Ore 11:40
Finalmente la galleria puntò verso l’alto e con il passo oramai lento per la stanchezza ci portammo all’asciutto. Ci posizionammo a diversi metri di distanza per vestirci nuovamente. Roberta era una decina di metri davanti a me. La luce della sua torcia era puntata verso me e Giuseppe. In quel modo lei era assicurata un minimo di luce per cambiarsi e, nel frattempo impediva a noi di vederla. Asciugai approssimativamente il mio corpo utilizzando qualche fazzolettino di carta dopodiché presi dallo zaino i miei vestiti e li indossai. Lasciai le mutande a terra.
Ore 11:50
Non sapevo più come tenere la testa. Se il tetto fosse stato almeno dieci centimetri più alto avrei potuto camminare in posizione eretta. Si percepiva chiaramente che la percentuale di umidità presente nell’aria era diminuita. Si respirava un po’ meglio. Roberta, che era l’unica a poter camminare senza piegare la testa, ogni tanto si massaggiava i deltoidi, stanchissimi per aver sorretto per diversi minuti il peso dello zaino. La superai prendendo nuovamente posizione davanti al gruppo. Mi sentivo stanco ma soddisfatto. Quella che stavamo vivendo era un’esperienza che avrei ricordato per il resto dei miei giorni. Mi sentivo un po’ Indiana Jones e un po’ Otto Lindenbrook sulle tracce di Arne Saknussemm.
Ore 12:02
Stavamo camminando a un buon ritmo quando vidi a una decina di metri qualcosa che mi incuriosì. Non appena puntai la torcia, notai che anche quelle di Roberta e di Giuseppe illuminavano lo stesso punto. Sembrava una sorta di nicchia posizionata sulla parete destra della galleria. Quando giungemmo a pochi metri da questa, ci rendemmo conto di cosa si trattava. Era l’ingresso di un altro cunicolo ai cui lati erano stati piantati due anelli di ferro arrugginito che, verosimilmente, nel passato erano serviti per sorreggere due torce. Quel tratto era cortissimo e molto più stretto della galleria principale. Toccai le pietre per assicurarmi che non mi sarebbero cadute addosso e mi infilai. Camminando su pietruzze e polvere e rischiando di scivolare lo percorsi sino alla fine, una decina di metri in tutto. Il mini cunicolo terminava con una scala di pietra alla sommità della quale era stata costruita una parete la cui composizione e realizzazione erano palesemente diverse dal resto del cunicolo. Evidentemente, qualcuno aveva impedito l’accesso a qualche altro posto. Uscii da quel piccolo tunnel e permisi anche al resto del gruppo di visitarlo.
«Secondo te cosa c’è dietro quel muro? Non credo possa essere l’abbazia perché non abbiamo percorso i chilometri che avevamo previsto», disse Roberta.
«Infatti», dissi prendendo la cartina, appoggiandola alla parete e illuminandola. «Di sicuro non è l’abbazia ma qui nella cartina non sono riportate altre chiese in questa zona. Siete a conoscenza di chiese site lungo la linea immaginaria che congiunge il castello con la zona di Santo Spirito?»
Entrambi fecero un cenno negativo con la testa. Chiusi gli occhi e ricostruii mentalmente tutte le immagini legate alla nostra escursione sotterranea. Sin da quando avevamo imboccato la galleria di destra il nostro percorso non era mai stato rettilineo. Il cunicolo aveva descritto una curva verso sinistra, lieve ma continua.
«Ragazzi», dissi fermandomi e voltandomi verso il resto del gruppo. «C’è qualcosa che non mi convince.»
Continuai a scuotere la testa.
«Cosa?» domandò Giuseppe.
«La prima metà del nostro tragitto è stata in discesa mentre, subito dopo quel tratto che abbiamo percorso in acqua, è iniziata una lieve ma continua salita. Fino a qui nulla di strano, però stiamo procedendo verso sinistra sin da quando siamo partiti. Non lo avete notato?»
«Veramente no», rispose Castrogiovanni Junior.
Si voltò e puntò la luce della sua torcia verso la parte di galleria che stava alle sue spalle. I primi metri si illuminarono sufficientemente mentre il resto del cunicolo rimase in penombra. Quello che Giuseppe vide bastò per convincerlo che la mia sensazione fosse esatta.
«Sì, è vero. Stiamo curvando leggermente verso sinistra. E allora?»
«Allora? Innanzitutto vorrei essere più preciso dicendo che stiamo curvando verso sud e vi ricordo che la nostra meta è a nord-ovest.»
«Cavolo, è vero», disse Roberta. «Considerato che avanziamo lentamente, avremmo percorso almeno cinquecento metri. Mi ricordo che quando siamo partiti abbiamo scelto la galleria di destra, quella che ci lasciava intuire che puntasse più a nord delle altre. La galleria accanto a quella che abbiamo scelto era appena un paio di metri più a sinistra. La curva che abbiamo descritto verso sud–ovest ci avrà fatto girare di non so quanti gradi. Diciamo di circa cento metri verso sinistra quindi avremmo dovuto incrociare la galleria accanto ma questo non è avvenuto. Secondo te cosa significa?»
«Che ci siamo passati sotto», disse Castrogiovanni Junior muovendo la testa su e giù come se stesse confermando qualcosa.
«Quindi, probabilmente non è questa la strada giusta per arrivare all’abbazia», esclamai.
«Mi chiedo una cosa», disse Roberta. «Perché avrebbero dovuto invertire gli ingressi delle gallerie? Mi spiego meglio: perché avrebbero fatto sì che la galleria più a nord puntasse invece verso sud–ovest?»
«Non lo so. Forse per confondere le idee a coloro che non erano autorizzati ad accedervi ma, ciononostante, vi si trovavano. Voglio accertarmi di una cosa. Restate qui: sto arrivando», dissi proseguendo da solo per la galleria. Percorsi circa trenta metri in compagnia della luce che Roberta e Giuseppe, incuriositi dal mio strano comportamento, proiettavano verso me, dopodiché tornai indietro soddisfatto.
«Cosa sei andato a vedere?» mi chiese Roberta.
«Ragazzi, non vorrei sbagliarmi ma sopra la nostra testa c’è la Cattedrale mentre più in là c’è la chiesa di San Sebastiano. Abbiamo attraversato la città verso sud-ovest e siamo finiti sotto il centro storico. Venite, vi faccio vedere cos’ho trovato.»
[Continua…]
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