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“Biglietto di andata e ritorno” di Salvatore Paci – Capitolo 15

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Biglietto di andata e ritorno

un thriller di Salvatore Paci

Capitolo 15

Mentre guardavo la valigetta, delle gocce di sudore mi rigavano la fronte per poi perdersi negli occhi e sul naso. Mi asciugai con il dorso della mano e cercai di rimettere a fuoco le rotelline con i numeri. Passai le mani sui pantaloni per asciugare i polpastrelli, inspirai profondamente e composi la combinazione di quattro cifre che avevo in mente. Doveva essere quella. Sì, doveva, perché se non fosse stata quella giusta non avrei saputo cosa fare. Con il pollice tremolante schiacciai il bottone e attesi una risposta da quel dannato meccanismo per un attimo che mi parve eterno e durante il quale tutta la mia vita passò davanti ai miei occhi, come un film visto a una velocità vertiginosa. Io che gioco nel balcone, mia madre che mi rimprovera per ogni cosa, la scuola, le prime avventure con le ragazze, il lavoro, il servizio militare, il primo bacio con Roberta, i nostri sogni per il futuro e poi, ancora più veloce, la mia cagnetta, l’incubo, il figlio di Gheppio, l’esorcista, il buio dei cunicoli, fretta, caldo, freddo, paura.

La valigetta si aprì, al primo tentativo.

«Come cavolo hai fatto?» chiese Roberta stupita.

«Te lo dirò quando saremo usciti da qui. Intanto guardiamo cosa c’è qui dentro.»

Era pieno di bigliettoni di grosso taglio. Sopra di essi c’era una busta chiusa. Il denaro riuscì a distrarci momentaneamente dalla busta. Cominciammo a contare. Come dei bambini che ordinano le figurine dei calciatori eravamo eccitati nel contare tutte quelle banconote che sembravano non finire mai. Al termine del conteggio, e con un’espressione di stupore nei nostri volti, avevamo davanti i nostri occhi esattamente un milione di euro; bigliettoni che sembravano ridere di noi sotto le luci fredde delle nostre torce.

Continuammo a guardarci sbalorditi e restammo in silenzio per qualche secondo. Quando lo stupore iniziale cominciò a dissolversi, prestammo le dovute attenzioni alla busta. La aprimmo e leggemmo la lettera che vi era contenuta.

Poche parole.

Carissimo Figliuolo, questo tesoro è tutto tuo. Goditelo! Per uscire da qui devi imboccare il cunicolo più stretto. Quello che si trova esattamente di fronte alla porta della cripta. Non provare ad attraversare gli altri cunicoli. Potresti morire nel corpo o nella mente. Non pensare più a me. Io ho trovato la mia strada. Cercavo la mia croce e l’ho trovata. Sappi che adesso non soffro più e ti sono molto vicino. Non immagini quanto!

Il tuo paparino.

«Che ne facciamo di tutti questi soldi? Mica sono nostri!» mi chiese Roberta.

«Non lo so. Intanto li portiamo con noi. E direi di affrettarci, pure; Vincenzo potrebbe apparire da un momento all’altro. Però, prima di andarcene da qui devo togliermi un dubbio. Un dubbio atroce. Tu resta qui!»

Raggiunsi il più grande dei cunicoli. Lo illuminai attentamente e mi spinsi al suo interno con estrema accortezza, muovendo un passo per volta. Era in forte pendenza, e le pietre sulle quali mettevo i piedi erano lisce e molto scivolose. Dopo aver compiuto una leggera curva a destra vidi qualcosa che mi lasciò senza fiato.

Rimasi immobile per un tempo indefinito. Il cono di luce cinicamente puntato in basso. Ciò che apparve davanti i miei occhi era a dir poco agghiacciante.

Sentivo la voce di Roberta che mi chiamava ma era come se arrivasse da un altro mondo. Sì, perché adesso mi trovavo nel passato, o forse al di là di una barriera invisibile che delimita il bene dal male, il reale dal metafisico, la vita dalla morte.

Decisi di tornare indietro. Lentamente. Molto lentamente.

La mia ragazza lesse nei miei occhi qualcosa di molto strano.

«Cos’hai visto?» mi chiese. «Cosa hai visto? Ti prego, dimmelo!»

Stavo quasi per risponderle quando sentimmo un rumore provenire dal cunicolo che portava alla cripta.

«Oh no! Vincenzo è riuscito ad aprire la porta», disse Roberta con voce tremula.

Iniziai a guardarmi intorno. Non sapevo cosa fare. Se fossimo fuggiti, Vincenzo avrebbe potuto raggiungerci in quanto non avremmo avuto il tempo di far perdere le nostre tracce. Se ce ne fossimo andati anche soltanto un minuto prima avremmo potuto contare su un vantaggio ragguardevole ma purtroppo eravamo ancora lì. Dieci, quindici secondi al massimo e il nostro ex compagno di avventura, ora diventato nemico, ci avrebbe raggiunti.

Sia nei film di spionaggio che nella mia quotidianità di programmatore avevo visto molte volte quei display neri sui quali si susseguono una serie di dati, un’infinità di zeri e di uno bianchi. Davanti ai miei occhi i dati scorrevano allo stesso modo, alla ricerca non di una password come nei film ma di una soluzione che avrebbe potuto salvarci la vita.

Muoversi; in fretta, agire; in fretta, non pensare; fare.

Svuotai bruscamente lo zainetto della mia ragazza facendo scivolare il suo contenuto dentro una incavatura profonda della roccia e riempii le tasche di quest’ultimo con i soldi di Gheppio. Presi un po’ di fiato e afferrai la valigetta avvicinandomi al cunicolo dal quale sarebbe comparso Vincenzo. Il cuore era una grancassa che voleva sfondare lo sterno per uscire, forse per fuggire da quel corpo adesso in pericolo di vita.

Lo vidi arrivare qualche attimo dopo. Mano a mano che avanzava nel buio del cunicolo i suoi contorni inizialmente confusi presero la forma di un estraneo, di un essere dallo sguardo freddo, cattivo e determinato. Aveva una pistola in mano e me la stava puntando contro.

Non gli diedi tempo di aprire bocca. Fui subito io a prendere la parola.

«Cazzo! E da dove spunta quel giocattolino che hai in mano? Ma sai che ti dico? Che adesso sono stanco», urlai. «E che non ne posso più di questa storia di merda. Sto cominciando a credere che questi soldi siano davvero maledetti. Vaffanculo a loro e anche a te.»

Gli diedi le spalle e mi avvicinai al cunicolo più grande della saletta.

«Fermati!»

«Ti ho detto che, basta, non voglio saperne più niente. Se vuoi i soldi, vatteli a prendere! Ma io ti ho avvisato; sono sporchi e maledetti.»

Così dicendo gettai la valigia dentro l’oscuro cunicolo che avevo esplorato un paio di minuti prima.

Vincenzo, al quale si erano illuminati gli occhi a causa della sua bramosia, mi passò accanto e dandomi una spallata si precipitò di corsa verso il cunicolo temendo che la valigia potesse perdersi in fondo a chissà quale abisso.

Lo vidi entrare in velocità e, un attimo dopo, un grido di dolore squarciò il silenzio e la solennità di quel luogo.

Chiusi gli occhi.

Sospirai.

«Adesso dobbiamo andare», dissi rivolgendomi alla mia ragazza.

Ma lei non rispondeva più; eseguiva meccanicamente. Era scioccata, con gli occhi sbarrati.

Scansionai ancora una volta i cunicoli con la torcia per individuare quello consigliato da Gheppio nella lettera. Diedi l’ultima occhiata alla saletta, come per darle l’addio e, seguito da Roberta, imboccai il cunicolo più stretto per iniziare la discesa.

Qualche decina di metri più in avanti, la presenza di un ruscello sotterraneo ci fu anticipata dallo scroscio dell’acqua, e così ci ritrovammo a costeggiarlo.

La pendenza variava da un momento all’altro. A volte bisognava sedersi per terra per poi saltare a un livello più basso. Invidiai l’acqua che, invece, scendeva saltellando da una roccia a un’altra, immune dalle fatiche alle quali eravamo sottoposti io e la mia ragazza. Avevo le mani sbucciate per via delle rocce taglienti, e Roberta non stava meglio.

Stavamo lasciando alle nostre spalle un incubo, forse il peggiore della nostra vita. Un’esperienza unica che sarebbe potuta essere l’ultima.

Scendendo mi pareva di sentire ancora il grido di Vincenzo rimbombare nella saletta. Il grido di un’anima che sa di volare verso l’inferno. Questa sensazione mi gelava il sangue, la schiena e la nuca.

Stavamo scendendo il cunicolo accompagnati dai nostri pensieri, dall’eco di quel grido che rimbalzava ancora da una parete all’altra, dalle immagini confuse che si mescolavano sconnessamente nella mente, drogando il sangue con tanti milligrammi di adrenalina.

***

Impiegammo circa due ore per scendere e non potrò mai dimenticare la mia gioia quando cominciammo a vedere i primi raggi di luce. Il sole era già tramontato da un pezzo quando, tutti inzuppati, ci ritrovammo finalmente all’aperto. Con i piedi a mollo godemmo di quel paesaggio che avevamo di fronte. Il cielo si stava colorando di nero e la luna ci sorrideva dall’alto. Attorno a noi, i suoni ovattati della natura: quelli che avevamo temuto di non poter sentire mai più.

Infilai la mano nel taschino e tirai fuori il telefonino. Lo accesi e aspettai che entrasse sotto copertura di rete.

Roberta piangeva. Mi abbracciava e piangeva. Il mondo attorno a noi ci sorrideva sereno.

Composi un numero. Uno squillo, due e finalmente qualcuno rispose.

***

Le indagini della polizia ci costrinsero a rimanere reperibili per un mese intero. Fui costretto a spiegar loro ogni minimo particolare della storia, ma lo feci con piacere. Spiegai loro anche il modo con il quale ero riuscito a individuare le quattro cifre esatte della combinazione scelta da Castrogiovanni. Gheppio aveva un’ottima memoria per quanto riguardava i novanta numeri del Gioco del Lotto mentre non ricordava nulla di tutto il resto. Aveva l’abitudine di segnare nei suoi quaderni alcuni dati per lui importanti. Per camuffare un numero che doveva rimanere segreto usava un trucco: sottrarre un’unità alla cifra esatta. Sosteneva che chiunque avesse letto quel numero avrebbe pensato che fosse quello corretto oppure avrebbe pensato che era stato segnato un numero completamente diverso. Le rondelle della valigetta mostravano 1312. Avevo ruotato la rondella del 2 per comporre 1313 e dopo aver schiacciato il bottone argentato, la valigetta si era aperta.

Nell’agosto del 2005 cominciammo a smantellare il mio appartamento per ristrutturarlo. Fu il primo passo verso il nostro matrimonio. Potemmo finanziarci i lavori grazie ai centomila euro regalatici dalla vedova Castrogiovanni.

Da allora, fino a due giorni prima del matrimonio, mi trasferii nella villa di Roberta.

I primi mesi del 2006 trascorsero velocemente, tra acquisti e preparativi per il matrimonio.

Io e Roberta facemmo una promessa: quella di non parlare più di Castrogiovanni. La mantenemmo ma, le opere eseguite nel mio appartamento, realizzate proprio grazie ai soldi di Gheppio, ci parlavano di lui, giorno per giorno.

A più di un anno di distanza da quei momenti così travagliati, certe immagini e certe emozioni continuano a passare per la nostra mente. Lo avverto in me e lo avverto anche in Roberta. Noto che mia moglie si agita quando saliamo in ascensore. Fa di tutto per non farmene accorgere ma le sue dita, che in quei momenti si contraggono in un pugno, dimostrano esplicitamente lo stato d’ansia. Le tante ore trascorse quasi come dei prigionieri sottoterra hanno intaccato il nostro sistema nervoso.

È come se lo spirito di Castrogiovanni aleggiasse ancora intorno a noi. Come se avesse marchiato a fuoco la nostra mente.

Abbiamo speso fino all’ultimo centesimo di quei soldi che oramai crediamo maledetti per aver distrutto tre vite umane. Non abbiamo voluto conservare nulla che fosse relazionabile a quell’avventura, eppure non c’è notte che non mi tornano in mente le frasi della lettera che inviai a Padre Arcangelo a fine aprile del 2006.

Venerabile Padre Arcangelo, sono Antonio La Mattina. Sono venuto a trovarla qualche giorno fa per chiederle notizie di Michele Castrogiovanni. Pensavo fosse doveroso da parte mia riferirle l’esito della mia passeggiata sotterranea.

Michele Castrogiovanni è riuscito a trovare la Croce Santa. L’ho vista anch’io con i miei occhi. L’ha usata per suicidarsi.

Ha deciso di riposare per l’eternità in compagnia di centinaia di ossa consumate dai secoli per bloccare il suo cervello oramai impazzito. È stato uno spettacolo orribile. La Croce Santa non è quello che mi sarei immaginato prima di vederla. Esiste veramente ma non è un oggetto sacro. È una grande fossa a forma di croce dalla quale emergono centinaia di lance affilate.

Ho dato un’occhiata ad alcuni graffiti scritti nella roccia e, qualche giorno fa, mi sono documentato tramite vecchi libri che ho trovato nella biblioteca comunale. Quello che sono riuscito a capire è che la Croce Santa non veniva usata con gli indemoniati da esorcizzare ma con i malati di peste.

La Peste Nera, come certamente saprà, a metà del quattordicesimo secolo falcidiò anche la Sicilia. Nessuna preghiera o benedizione fu efficace. Sembrava fosse arrivata la fine del mondo. Tre quarti della popolazione di Caltanissetta venne contagiata e morì. Solo poche persone risultarono immuni a questo morbo. Un certo Antonio (il futuro Frate Antonio) era uno di questi.

I frati, con lo scopo evidente di liberare la città dagli appestati e di salvare il resto dei nisseni, diffusero la notizia che erano in grado di guarire gli infetti. Molti cittadini malati e in fin di vita si recarono presso l’Abbazia con la speranza di guarire. Il compito di Frate Antonio era quello di accompagnarli nei sotterranei, davanti alla Croce Santa. Anzi…“dentro” la Croce Santa. I corpi venivano inceneriti. Durante le giornate di pioggia la grotta veniva sommersa dall’acqua e le ceneri venivano trascinate giù dal torrente fino ad arrivare al fiume Salso. Ecco come si spiega l’origine della leggenda che diceva che in quegli anni il “Fiume di Caltanissetta” si vestì di nero per portare il lutto per tutti i concittadini morti.

Prima ho visto Michele Castrogiovanni dentro la Croce Santa, accanto a centinaia di ossa. Qualche minuto dopo, l’avidità di suo figlio ha fatto sì che anche lui finisse per riposare per sempre accanto al padre.

Non si trattava di Giuseppe ma di un altro figlio che Michele ha avuto da una relazione con un’altra donna. Le indagini della polizia hanno scoperto come sono andate le cose. Vincenzo (era questo il suo nome) era stato anch’egli beneficiario dei regali di suo padre ma, a differenza di Giuseppe e di sua sorella, non si accontentava mai di quanto gli veniva donato. Michele, temendo che prima o poi Vincenzo riuscisse a sottrargli tutto il denaro (consideriamo che Vincenzo, minacciando suo padre, era riuscito a farsi cointestare alcuni conti bancari), aveva rastrellato tutto ciò che aveva depositato in banca e lo aveva nascosto nell’unico posto nel quale sperava che Vincenzo non fosse mai arrivato: i sotterranei di Caltanissetta.

Un avo di Michele, patito di tutto ciò che di più misterioso ed esoterico esisteva al mondo, aveva creato un passaggio che portava fino ai cunicoli che si diramano sotto la città. La conoscenza di questo passaggio e della mappa della Caltanissetta sotterranea furono tramandate di padre in figlio e arrivarono fino a lui.

Il piano di Michele sembrava perfetto: lui si sarebbe suicidato e avrebbe lasciato a Giuseppe una traccia per arrivare al tesoro: le sue lettere.

Ma gli eventi precipitarono. Dopo il suo suicidio, Vincenzo cercò di ottenere da Giuseppe informazioni che effettivamente egli non era in grado di dargli. Infuriato, lo uccise e nascose il suo cadavere seppellendolo in una suo appezzamento di terreno nei pressi di Riesi. Si sostituì in toto al fratellastro, approfittando del trasferimento della madre di Giuseppe e della famiglia della sorellastra in Argentina e cercò ogni notizia che potesse riguardare suo padre.

Trovò una scatola con un floppy disk e una lettera che non riuscì a decifrare. Mi contattò per chat sotto mentite spoglie, così come fece con tanti altri collaboratori di riviste per il lotto, e installò a mia insaputa un trojan nel mio PC con il quale spiava ogni mia mail e leggeva ogni documento del mio hard disk.

Ne lesse una che avevo indirizzato a una mia amica, nella quale le raccontavo di aver sognato il padre di Giuseppe e ne approfittò per coinvolgermi nella ricerca.

Decifrai il contenuto della scatola: si trattava di una metodologia per il Gioco del Lotto che aveva fatto arricchire Michele.

Intanto lei inviò le lettere a Vincenzo, credendo che fosse Giuseppe e io, grazie ad alcuni eventi che mi insospettirono, capii di essere stato spiato da lui e gli chiesi spiegazioni.

Vincenzo (per me Giuseppe) mi consegnò le lettere del padre e qualche tempo dopo, scoperto il passaggio segreto, cominciammo la nostra avventura sotterranea.

A causa di un crollo, Vincenzo rimase isolato da noi e per raggiungerci dovette percorrere il cunicolo che porta a San Michele e poi dirigersi fino all’Abbazia. Io e Roberta decidemmo di continuare il nostro giro e rimanemmo intrappolati in una cripta (che secondo me lei conosce). Da lì, dopo aver scoperto come aprire la porta dell’abside, accedemmo a una grotta.

Trovammo la valigetta di Michele dentro la quale c’era una fortuna in denaro e c’era indicato anche il modo per uscire da quei sotterranei. Una frase contenuta in un biglietto mi fece venire un dubbio. “Sentivo” che Castrogiovanni Senior era lì vicino. Esplorai con prudenza le gallerie e vidi uno spettacolo orrendo. Un mucchio di ossa, sopra le quali si intravedevano una camicia e un pantalone. Tra i passanti del pantalone riconobbi la cintura che solitamente portava Michele e alla quale era molto legato in quanto “gli portava fortuna”, diceva. Era di pelle nera con degli inserti in acciaio.

Michele aveva deciso di farla finita e aveva trovato la sua salvezza uccidendosi “dentro” la Croce Santa.

Qualche secondo dopo la mia scoperta, Vincenzo ci raggiunse nella grotta. Il mio cervello partorì un’idea: svuotai la valigetta e misi tutti i soldi in uno zaino. Quando Vincenzo arrivò era con una pistola in mano e me la stava puntando contro. Gettai la valigetta ormai vuota verso la Croce Santa. Vincenzo si precipitò nel cunicolo, scivolò e finì per fare compagnia a suo padre.

Le scrivo per comunicarle che la storia non sempre è così come ci viene raccontata. Non voglio entrare nei particolari. Ho voluto soltanto farle conoscere i motivi che mi hanno impedito di consegnarle quanto promesso.

Se le venisse voglia di visionare la grotta… mi faccia un colpo di telefono e le dirò come aprire la porta della cripta. Ho dovuto raccontare tutto quanto alla polizia. Tra poco bloccheranno ogni ingresso alle gallerie sotterranee. Il cunicolo lungo il quale scorre il ruscello che arriva fino al fiume Salso non verrà bloccato. Sarà alzata una parete in corrispondenza dei cunicoli della grotta, compreso quello della Croce Santa. Non racconteranno nulla ai giornalisti per non incuriosire la gente. Si immagina quante persone cercherebbero di raggiungere quei luoghi?

Tra poco la Croce Santa sarà sepolta per sempre. I corpi di Vincenzo e quello che rimane di quello di Michele sono stati rimossi, esaminati e adesso giacciono nella cappella gentilizia di Sebastiano (un avo degli Castrogiovanni). Viaggio di andata e ritorno per i due consanguinei. Quant’è buffa la vita!

Addio!

***

Ricordo perfettamente la mattina successiva alle nozze, la gioia di svegliarmi con Roberta sul mio petto. Il suo contatto sul mio corpo mi aveva fatto dormire meravigliosamente bene, come ormai non facevo da anni. Non dimenticherò mai come quella mattina le accarezzai il viso e la svegliai dolcemente dal suo sonno.

«Roberta, non puoi immaginare chi ho sognato questa notte.»

«Non lo voglio sapere. Ti prego!»


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