“Il bambino sporco” di Don Gino La Placa, ossìmoro di un’Esistenza
Ascoltare e guardare un racconto che, in se’, possiede una dimensione intrinsecamente spirituale, con occhi laici, talvolta assume una valenza molto speciale.
Questo accade scorrendo le pagine di vita raccontate da Don Gino La Placa.
E’ una storia comune di una sofferenza non comune, di una sofferenza fanciulla che scardina ogni preconcetto legato alla Fede o alle scelte personali. E’ una storia di tutti.
Suddiviso in 14 capitoli, il romanzo si dimena tra nodi serrati dell’esistere complesso.
La semplicità del linguaggio miocardico intrattiene rapporti intimissimi con la drammaticità degli eventi. E’ un andirivieni di emozioni che prendono e poi scaraventano forte sull’asfalto della coscienza.
Si parla di famiglia, nella quale “Madre Coraggio” rappresenta fulcro e cardine, spesso silenziosa ma onnipresente. Una Madre succube e guerriera, spesso contrita ma altisonante, anima enorme nel corpo esile, regge la scena della casa, tra i cocci smembrati della fatica.
La Madre, alla quale, in chiusura di racconto, come una catarsi vengono dedicate diverse liriche, di bellezza e di abbandono all’amore e alla nostalgia.
Esiste un Padre, il simbolo del vizio (l’alcolismo), della violenza, del terrore e dell’indifferenza ma anche del pentimento e dell’estrema fragilità, essa stessa guida verso un processo di graduale riconoscimento dei valori affettivi prima elusi ma inevitabilmente innati.
Madre e Padre riecheggiano come pezzi di cronaca attuale, da un lato le violenze sulle Donne, ancor oggi sempre pesantemente perpetrate, dall’altro la violenza e le dipendenze morbose di molti uomini ingiustificate ed inguaribili. Attualità e ricordo esperienziale, dunque, si compenetrano.
E’ un gioco fortissimo di antitesi che si affrontano e si confrontano con al centro un ago sottile a bilanciarne il senso: il piccolo Luigi, testimone e vittima, insieme ai numerosi fratelli, di una vita non vita.
Scorrono vorticose le immagini, i personaggi, i paesaggi tutti siciliani, il connubio con la natura, la speranza nella generosità degli animali, l’accoglienza del vecchio carretto siciliano, pronto a donare rifugio nelle notti fredde ai piccoli fratelli maltrattati dal padre senza lucida consapevolezza.
Interessante la chiara spartizione del bene (eclatanti le figure femminili come la madre, la sorella prematuramente scomparsa, la Professoressa) e del male (il padre, il maestro/padrone, i compagni bulli). La figura femminile per Don Gino rappresenta conforto, rifugio, possibilità.
Le scene di vita si avvicendano ed il lettore può esserne partecipe quasi provarne compassione, nella sua etimologia più alta del soffrire insieme, cum patior.
Interessanti, da un punto di vista stilistico, i passaggi repentini della voce narrante, parla in terza persona distaccandosi dalla sofferenza ma inevitabilmente torna ad essere l’Io intimo che si racconta per poi rivolgersi direttamente all’ interlocutore protagonista, come spesso accade con la Madre. Con lei parla spesso, come in un angolo solitario, come in uno spazio spirituale esclusivo che quasi turba leggere e sbirciare.
Eppure i nodi di questa enorme quercia, che oggi è Don Gino, si palpano costantemente lungo il percorso degli ultimi capitoli, nei quali predomina il coraggio, la rivalsa veicolata nel senso alto dell’Amore verso la Fede illuminante, dunque verso il prossimo. Il donarsi come metafora di ricongiungimento e di empatia, “basta premettere, alla parola IO, la D…”, il processo del riconoscimento del se’ nella dimensione di Dio e del Suo amore riempie i baratri dell’odio, di angoscia e di repulsione sostituendosi ad essi e tracimando di carezze e di perdono.
Solo attraverso il dolore si può recitare e attuare il bene, eppure, le ferite gemono dei loro ricordi, ogni qualvolta se ne rievoca l’Eco profonda.
Io e Don Gino ci siamo conosciuti in un momento di sconforto ed è stato ancora il dolore e la paura a rendere possibile un incontro che, oggi, produce poesia, fiducia, sorriso e speranza.
Antonella Ballacchino