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‘Don Ribaudo’ è il romanzo del medico e scrittore nisseno Michele Diana, la recensione

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La copertina non è mai casuale. Nonostante ci si ostini a non ammetterlo, la copertina di un libro è un ramo, talvolta l’intero apparato radicale, dell’Anima di chi lo ha pensato, scritto, vissuto tra le sinapsi. Chi scrive un romanzo, lo pensa costantemente e ne viene inevitabilmente posseduto.

Guardando la copertina di “Don Ribaudo” si scorge la rappresentazione timida, seppur inconsapevole, di Michele Diana, medico e scrittore nisseno. Si palesa lo sfondo scuro del misterioso mini giallo contenuto tra le pagine, s’ irradia la luce al centro, metafora dello spirito, della ragione e delle virtù umane che cullano le parole sui fogli, immagine dopo immagine.

E’ uno sguardo scoliotico ma che, allo stesso tempo, guarda avanti tra stupore e ammirazione(di chi? di cosa?). La figura è composta ed elegante, porta il lettore a sfogliare in anteprima la fisicità del protagonista mai descritto e soltanto ricostruito attraverso i dialoghi, le descrizioni, la narrazione tutta. Desta, dunque, curiosità, intraprendenza, attività neuronale dell’immaginazione. Così lettore e scrittore si incontrano senza toccarsi e si scambiano i ruoli, si vivono e si riconoscono.

Non è un romanzo autobiografico ma le scelte dei luoghi, delle professioni, delle abitudini, dei dialoghi riportano, come una potente risacca, sulle rive di una sicilianità intimissima e familiare.

L’assetto è certamente piramidale, una sorta di conica casualità di fatti e personaggi, l’apice è certamente dominato dalla carismatica presenza di Don Ribaudo, la sapienza del romanzo, colui che sa, che non dice ma suggerisce, il Tiresia di questo piccolissimo paese che possiede in se’ una sua sacralità (SAN) ed una sua intrinseca giustizia (GIUSTO).

La gerarchia degli eventi si stratifica in diramazioni e dinamiche tra loro più o menocollegate da tematiche interessanti e modernissime, dalla emancipazione femminile, alla ricerca della cultura in fuga con i cervelli, dalla protezione spasmodica di tradizioni perdute, alla bellezza dell’umanità di un misterioso e altisonante Clochard.

A sostenere gli intrecci delle storie sicule vi è Carlo Vanadìa, lo psichiatra in esilio esistenziale,il filo conduttore di ingorghi emotivi, tra un’ anamnesi e uno sguardo amoroso, tra un respiro profondo di sollievo per aver curato corpi e anime e un’ apnea onirica per non aver saputo salvare il proprio cuore.

Come una scena teatrale si sentono i suoni, si vedono i paesaggi e gli odori di vino, buon cibo e rarefazione alcolica dei piccoli ambulatori medici di paese. Ci si sente seduti di fronte alla scenografia e, talvolta, ci si sente personaggio stesso.

Accattivante il gioco delle parti, gli scambi interpersonali e i giochi d’identità da scoprire e, poi, accarezzare nel loro profondissimo spessore.

Si palpa l’amore per il prossimo, per la fede, per la caritatevole morbidezza di una cultura scientifica saggiamente veicolata nel gesto del prendersi cura.

Un romanzo polimorfo, un romanzo di vicinanza e di profondità, un romanzo che parla dell’ Uomo e di ciò che, senza urlarlo troppo, potrebbe donare a chi ha ancora la capacità di affidarsi.

S’abbenedica dutturi!”, il saluto che il medico di oggi dovrebbe desiderare e amare oltre la propria parcella.

 

Michele Diana è medico di medicina generale. Vive ed opera a Caltanissetta. Questo è il suo primo romanzo, “Frutto di fantasia e non autobiografico. E’ stato un lavoro divertente e rilassante, che mi ha tenuto compagnia la sera per quasi un anno. Ci sarà un seguito? Chissà. Intanto offro questa mia prima esperienza ai lettori, che, spero, possano essere numerosi”.

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