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“Biglietto di andata e ritorno” di Salvatore Paci – Capitolo 8

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Biglietto di andata e ritorno

un thriller di Salvatore Paci

Capitolo 8

Era l’ultima lettera. Nella cartella gialla non c’era nient’altro. Provai un profondo senso di malinconia. Un minuto prima Gheppio era ancora presente nella mia vita per mezzo di quelle lettere e un minuto dopo era scomparso per sempre e ne sentivo la mancanza. I suoi racconti mi avevano trasportato in un mondo irreale, pauroso ma intensamente affascinante. Adesso, nella mia mente apparivano e si dissolvevano diverse immagini. Lo vedevo mentre alzava la saracinesca della sala giochi, mentre prendeva appunti sulle riviste, mentre cercava di convincermi che era il numero uno nel campo del Gioco del Lotto. A queste immagini se ne sovrapponevano delle altre. Quelle che riguardavano il Gheppio delle lettere: l’uomo sfinito da una vita piena di alcol e di paure. Il Castrogiovanni che si rifugiava accanto alle immagini sacre, a lui per niente familiari, nella speranza di allontanare lui, la sua dannazione.

A fatica, cercai di uscire da quel tunnel di pensieri e di concentrarmi sul da farsi. A quel punto avevo il quadro completo di ciò che gli era successo. Le cose erano andate diversamente da come avevo immaginato. Prima di aver letto tutte le sue lettere avevo pensato che la sua scomparsa fosse stata causata dal fallimento nel gioco. Gheppio, invece, con il suo infallibile intuito era riuscito a chiudere il conto in attivo. Nettamente in attivo. Era stato il suo malessere interiore a rovinargli l’esistenza. La presenza del demonio nella sua vita. So cosa mi avrebbe detto Roberta: “Demonio? Per me sono soltanto allucinazioni. Cosa si può pretendere da una persona che trascorre le sue giornate attaccata a una bottiglia di whisky?” Effettivamente, Castrogiovanni aveva descritto le sue sensazioni ma erano le sensazioni di uno straccio d’uomo, ridotto in quello stato dall’abuso dell’alcol. C’erano però dei dati oggettivi. Gheppio aveva vinto realmente durante tutti quei mesi. Lo testimoniavano i soldi che aveva regalato ai figli, l’acquisto di un’automobile di lusso, le statistiche che corrispondevano alla storia da lui narrata.

Se tutto questo era reale, perché non avrebbe dovuto esserlo anche tutto il resto? Tutto sommato si era trattato di un incubo. Però, pensandoci bene un incubo possiamo averlo tutti ma… si potevano considerare coincidenze tutte le cose che gli erano capitate a partire da quella notte?

Aveva sognato di contrarre un patto con il demonio e aveva cominciato a vincere. Aveva sognato nuovamente la bestia che gli chiedeva l’anima e il metodo aveva smesso di funzionare. Coincidenze?

***

Mercoledì, 6 Aprile 2005

«Non si tratta di coincidenze. Assolutamente no!» mi disse Roberta sfilando la mano dalle mie. «Ti ricordo che stiamo parlando di un alcolizzato che non aveva il perfetto controllo di sé. Questa gente non è in grado di ordinare cronologicamente gli eventi. Può darsi che l’incubo lo abbia avuto soltanto “dopo” aver cominciato a vincere al lotto. Successivamente, la sua mente confusa gli ha fatto credere di aver vissuto quegli eventi in ordine inverso. Non ci sarebbe niente di strano se le cose fossero andate così.»

«Già! Non ci sarebbe niente di strano.»

«Adesso sono io a chiederti una cosa», disse Roberta. «Secondo te, che fine ha fatto Castrogiovanni? Il demonio lo ha portato con sé all’inferno?»

«Mi prendi in giro?»

«No, è rispetto a me, sei più…»

«Credulone? No, cara. La tua è una domanda a trabocchetto e non posso rispondere con un semplice sì o no. Secondo me il diavolo non è un’entità fisica. Rappresenta il male, in tutte le sue forme. Ognuno di noi fa pensieri buoni e pensieri cattivi. La Chiesa, convenzionalmente, identifica i pensieri cattivi con il demonio. Prendi come esempio un uomo che è indeciso se tradire o meno la propria moglie. Noi diremmo “la sua lussuria lo spinge a….” la Chiesa, invece, direbbe “È tentato da Satana”. Come vedi sono modi diversi per descrivere la stessa cosa. Vuoi una risposta alla tua domanda? Bene; se Gheppio è realmente morto, è stato Satana a portarlo con sé all’inferno. Però, non il Satana che intendi tu. Parlo del suo malessere, dei suoi pensieri confusi, di tutto ciò che di sbagliato c’è stato nella sua vita. Tutte queste cose lo hanno condotto a una vita assurda, permeata dal male e dal malessere. Chiama tutto questo come vuoi ma il risultato finale non cambierà. Ti ricordo che in una delle sue lettere ha scritto qualcosa del genere: “Non è vero che l’irreale non esiste. Se ci credi, esiste. Lo hai creato dentro te.” Mi sembra un discorso corretto.»

«Credi che sia ancora vivo?»

«Credo di no. Sono trascorsi già più di tre mesi dalla sua scomparsa e suo figlio non ha più avuto sue notizie.»

«Può darsi che sia ancora alla ricerca della sua fantomatica Croce Santa.»

«Sono tante le cose che mi fanno credere che sia morto. Ammesso che si sia dedicato alla ricerca della Croce, le sue indagini le avrebbe svolte a Caltanissetta. Nella lettera citava l’Abbazia di Santo Spirito. Sarebbe potuto tornare a casa, la sera. E invece no. È assurdo pensare che abbia condotto le sue ricerche lontano dalla sua città. Penso che si sia cacciato in qualche guaio e che sia morto.»

«E il suo corpo? Dove sarebbe finito il suo corpo? I giornali ne avrebbero parlato. “Trovato il cadavere di Michele Castrogiovanni, un uomo scomparso nel dicembre del 2004”.»

«Non so cosa dirti.»

«Ieri, mentre tornavo da Enna, mi sono ricordata che ci sono due cose che abbiamo lasciato in sospeso.»

«Quali?»

«Alessandro. Non lo abbiamo più contattato.»

«A questo punto è superfluo. Abbiamo decodificato il file e ottenuto la statistica completa del metodo. Adesso dobbiamo scoprire che fine ha fatto Gheppio. Alessandro potrebbe aiutarci nella nostra ricerca? Credo di no. È stato contattato per realizzare un programma. Punto e basta.»

«Okay per Alessandro ma… Giuseppe? Adesso dovresti incontrarlo, no? Ti aveva chiesto di leggere tutte le lettere del padre e tu lo hai fatto. È giunto il momento in cui dovrebbe darti delle spiegazioni. È entrato nel tuo computer, ha letto le tue mail.»

La mia testa era affollata da tante domande. Che fine aveva fatto Gheppio? Era vivo? E se lo era, dove si trovava? Cosa aveva fatto tra il venti e il venticinque dicembre duemilaquattro? Chi aveva incontrato oltre al monaco esorcista? Poi, c’era quella frase emblematica: “Spero che il nostro antenato Sebastiano mi perdoni per quello che sto per fare”. Cosa voleva dire con queste parole?

Le domande erano troppe e ognuna di esse meritava una risposta. Ritenevo inutile indagare su Alessandro. Sentivo che era arrivato il momento di parlare con Gheppio Junior.

Ero disposto a prendermi una giornata di ferie se Giuseppe mi avesse concesso un appuntamento per quella mattina. Lo chiamai.

Durante la mattina non ero riuscito a concentrarmi sul lavoro da svolgere. Avevo cercato di capire quali potevano essere stati i pensieri di Castrogiovanni durante quelli che lui credeva gli ultimi giorni della sua vita. La sua attenzione si era concentrata sulla Croce Santa, quell’oggetto che per lui rappresentava l’unica cosa al mondo che potesse salvarlo da una fine certa. Dove l’avrei cercata se fossi stato al posto suo? Probabilmente avrei chiesto notizie presso l’Abbazia di Santo Spirito ma i frati mi avrebbero aiutato? E poi, quali frati? In tutta la struttura c’erano soltanto il parroco e tre suore di colore. Che aiuto avrebbero potuto darmi?

C’era ancora un’altra difficoltà. Chissà se con il passare dei secoli l’attuale struttura del fabbricato coincideva con quella di seicento anni prima.

Le continue alluvioni che avevano tormentato Caltanissetta in quel periodo avevano travolto molte delle case situate sotto il Monte Sant’Anna. Probabilmente, molti caseggiati allora annessi alla parrocchia si trovavano ormai sepolti sotto decine di metri di tufo.

Ammesso che sia realmente esistita, quante possibilità c’erano di recuperare la Croce Santa?

Secondo me nessuna.

E c’era anche un’ulteriore fattore da considerare: la Santa Chiesa, come istituzione, tendenzialmente preferisce non diffondere notizie su fatti che interessano il suo operato. Se la Croce Santa fosse arrivata nelle sue mani, lo avremmo mai saputo? Probabilmente no. Nel caso fosse stata trovata nel corso di questi secoli, dove si troverebbe adesso? Di certo non a Caltanissetta ma a Città del Vaticano.

Le considerazioni che avevo fatto erano tutte negative ma, se la mia intenzione era quella di percorrere gli stessi sentieri di Castrogiovanni, dovevo assumere un atteggiamento simile al suo e sforzarmi di trovare una serie di informazioni sull’Abbazia. Innanzitutto mi interessava conoscere la sua data di costruzione. Poi, sarebbe stato il massimo se avessi trovato — magari in biblioteca — un libro con la mappa del territorio della chiesa e di tutte le costruzioni annesse e connesse.

Guardai l’orologio. Erano le dodici e dieci. Chiesi un permesso e mi recai nella più vicina libreria. Dopo aver scartato alcuni libri che non sembravano idonei alla mia ricerca, uscii con un paio di essi su Caltanissetta e i suoi monumenti. Giunto in ufficio sfogliai velocemente il primo libro, alla ricerca di notizie sull’Abbazia di Santo Spirito. L’autore, sulla base del testo della Bolla Pontificia di Alessandro III, sosteneva che era stata costruita dal Conte Ruggero e da sua moglie Adelasia. I miei ricordi contrastavano nettamente con questa teoria poiché il Conte Ruggero conquistò Caltanissetta soltanto nel 1087, mentre la chiesa è sicuramente molto più antica. Chiusi il libro: non mi convinceva. Passai al secondo. Questo era molto più grosso e dava la sensazione di trattare l’argomento in maniera più esaustiva. Anche questo secondo autore faceva riferimento alla Bolla di Alessandro III ma, come me, asseriva che le origini della Chiesa erano molto più antiche. A suo avviso, erano molte le cose che confermavano il suo punto di vista.

Il fonte battesimale era un battistero nel quale i bambini si battezzavano per immersione. Questo rito fu mantenuto nelle chiese della Sicilia fino al decimo secolo e poi caduto in disuso per cui, se l’Abbazia fosse stata costruita ai tempi del Conte Ruggero, sicuramente non avrebbe avuto quel tipo di fonte battesimale.

Dentro la chiesa di Santo Spirito ci sono le immagini dell’Ecce Homo e di Sant’Agostino. Entrambe presentano lo stesso stile e sono fregiate di iscrizioni in caratteri greci. Questi dipinti sono collocabili storicamente intorno al settecento, epoca durante la quale il monastero fu posseduto dai Canonici Regolari di Sant’Agostino.

Continuando la lettura arrivai a un’altra teoria. Nel libro si faceva riferimento a un manoscritto che porta la data del 1779 e che dice chiaramente che il Conte Ruggero fece abbattere la chiesa preesistente per porre fine all’infame rito dei Musulmani e costruire l’Abbazia, nel 1093, dotandola di tanti tesori.

Questo spiegherebbe l’equivoco. La struttura esistente prima dell’intervento del conte era costituita da una chiesa passata anche per le mani dei Musulmani.

Alle quindici, dopo aver mangiato un panino al Bar Merlino, decisi di visitare la chiesa. Speravo di trovarla aperta ma purtroppo non lo era. Trovai il portone principale chiuso e vidi una Lancia verde davanti al portone laterale. Fui tentato di citofonare ma, data l’ora, rinunciai. Presi i libri dal sedile della mia Passat e mi fermai nella pagina in cui veniva descritto il monastero. Innanzitutto, notai un’altra incongruenza: a sinistra del portone principale, proprio vicino lo spigolo sinistro della parete principale, c’era una targhetta in ottone che riportava la scritta: “A.D. 1000”.

Chi aveva commissionato quella targa, sembrava non aver mai letto la storia del Conte Ruggero. Erano troppe le cose che non mi convincevano.

Mi fermai davanti la porta tramite la quale si accedeva alla chiesa. Alzai gli occhi e vidi il Cristo Pantocratore. L’autore del libro lo aveva descritto davvero bene. Si trattava di un affresco, ormai protetto da una lastra di plexiglas, raffigurante il mezzo busto di Gesù, con la mano destra alzata. Il pollice, l’indice e il medio erano alzati, formando l’ormai famoso numero tre. A sinistra del volto si notavano a fatica alcune lettere. Aiutato da quello che leggevo dal libro, riuscii a riconoscere la scritta “Salvator Mundi”. Con la sinistra teneva un libro aperto sul quale era scritto, a caratteri grandi “Ego sum lux mundi”. Mi diressi verso il fianco sinistro della costruzione. La pietra viva con la quale era stato costruito il monastero contribuiva a rendere la struttura davvero affascinante. Tra gli alberi s’intravedeva Caltanissetta. Non c’era alcun viottolo visibile tra la vegetazione. Eppure, sapevo per certo che esisteva ancora un passaggio che conduceva fino all’estremità nord-est del Monte Sant’Anna. Niente di misterioso. Si trattava semplicemente di una stradina che in passato permetteva ai cittadini di spostarsi dalla periferia verso l’Abbazia. Lessi, in uno dei miei due libri, che fino agli ultimi anni del XIX secolo veniva utilizzata dai nisseni, specialmente durante il lunedì di Pasqua per recarsi al monastero per la Festa di Santo Spirito.

Fino a una ventina di anni prima, quel tratto di strada di campagna era utilizzato soltanto dalle coppie di innamorati che se ne servivano per appartarsi dentro le loro automobili. Poi, lentamente ma inesorabilmente, l’erba e le grosse pietre scivolate a causa delle piogge dal Monte Sant’Anna avevano invaso il sentiero, bloccando il transito alle automobili e rendendo difficoltoso anche il passaggio pedonale.

Alle quindici e trenta entrai in auto e mi diressi verso Caltanissetta. Presi il cellulare e chiesi a un operatore del 412 il numero telefonico della Parrocchia di Santo Spirito. Dall’Abbazia mi rispose un signore che mi disse che il parroco non c’era. Gli domandai se fosse stato possibile rubargli qualche minuto del suo tempo. Fu gentile e mi disse di sì. Gli chiesi come mai sulla targa di ottone era riportata, come data di costruzione, la data dell’anno mille mentre si sapeva che l’Abbazia era stata costruita nel 1093. Mi rispose che la targa esterna riportava una data approssimativa. Secondo lui, la data giusta era il 1087. Volli sapere se la struttura del monastero avesse subito trasformazioni sostanziali nel corso degli ultimi secoli ma lui mi rispose che avrei dovuto porre le mie domande a un certo Roberto Manganaro che, a detta sua, avrebbe potuto darmi i chiarimenti tanto desiderati. Gli domandai se aveva un recapito telefonico di questo signore ma, purtroppo, non lo aveva. Mi rispose che lo avrei potuto incontrare la domenica durante la Santa Messa delle ore diciotto alla quale non mancava mai. Lo ringraziai e lo salutai.

Non volevo aspettare fino a domenica e quindi giunto a casa accesi il computer e feci una ricerca sul sito di Pagine Bianche. Con quel nome c’erano quattro abbonati telefonici. Composi il primo numero ma non mi rispose nessuno. La seconda telefonata fu un poco più fortunata: parlai con una signora che mi disse che Roberto era un suo parente ma che avrei dovuto cercare nell’elenco Manganaro Donatello e non Manganaro Roberto. Aggiunse che avrei dovuto aspettare almeno fino alle ventuno per trovarlo a casa. Non aspettai e provai a chiamarlo. Nessuna risposta.

Cercai su Google notizie sull’Abbazia. Appresi da un sito che, nei secoli, gli interventi di restauro erano stati numerosi. La tettoia, i muri e gli archi del portico erano stati riparati nel 1777. Nel 1873 fu tolta e sostituita l’antica porta della chiesa. Altri lavori di restauro furono svolti nel 1875, nel 1882, nel 1887 e nel 1917. Nei primi anni del 1900 su progetto del Soprintendente ai Monumenti Francesco Valenti fu eliminato il portico esterno a tre archi e anche le finte volte del tetto. L’ultima e discussa opera di restauro fu apportata alla sommità dell’antica abbazia alla quale fu aggiunta una merlatura e al campanile che fu ricoperto da una cupola. A quanto pare, le opere di restauro erano state apportate solo all’esterno e non alle stanze interne. Ciò significava che se la Croce Santa esisteva veramente e non era mai stata trovata, avrebbe potuto trovarsi ancora lì, nascosta in una delle stanze del monastero.

Alle sedici e quarantacinque ero già nei pressi del bar Pianeta Tremila, intento a parcheggiare la mia auto. Pensai a come si sarebbe potuto giustificare Giuseppe per la sua opera di spionaggio ai miei danni. Nel precedente appuntamento non mi aveva dato neanche il tempo per parlare; mi aveva immediatamente pregato di leggere le lettere del padre. Le spiegazioni sarebbero arrivate soltanto dopo.

Cercai di immaginarmi quali potessero essere i motivi che lo avevano portato a spiarmi. A casa sua mi aveva chiesto di decifrare il materiale contenuto nella scatola eppure le lettere del padre spiegavano tutto. Io stesso avevo deciso di interrompere le ricerche di Alessandro perché, a seguito di quello che avevo letto, avevo capito che contattare Alessandro sarebbe stato inutile. Invece, Giuseppe aveva curiosato nella mia posta per cercare di parlargli prima di me. Perché? Decisi che era preferibile aspettare qualche minuto. Avrei sentito la soluzione dell’enigma direttamente dalla sua bocca.

Da diversi anni il Pianeta Tremila era il luogo di ritrovo dei giovani. Il titolare aveva capito cosa piace ai ragazzi: ampi spazi nei quali fermarsi a parlare, ambienti arredati con moderata eleganza e prodotti di qualità. Non aveva trascurato nulla. Neanche le ceramiche nelle quali veniva servito il tè o il caffè. Al piano superiore non c’era nessuno. Mi sedetti a un tavolo per quattro, in fondo alla stanza. Un minuto dopo essermi accomodato salì un cameriere per portarmi il menu. Gli dissi che aspettavo un amico e si allontanò con un sorriso gentile.

Giuseppe arrivò puntualissimo, alle diciassette. Indossava una giacca informale di colore blu sotto la quale spiccava una camicia bianca lasciata fuori dei pantaloni. Calzava un paio di scarpette di ginnastica bianche con tre strisce grigie ai lati. Si avvicinò al tavolo e capii dai suoi movimenti che stava per salutarmi allo stesso modo di sempre; con un abbraccio e due baci sulla guancia, come si usa nella nostra Sicilia. Gli allungai solamente la mano. Non mi sentivo di mostrare affettuosità nei confronti di uno che, da qualche tempo, spiava il mio computer.

«Dimmi tutto», gli dissi con un tono piuttosto rude.

«Ok, ok.»

Si sistemò la sedia e fece un sospiro. Per un attimo mi sembrò uno studente universitario durante un esame.

«Non so cosa tu stia pensando di me», esordì, «ma ti assicuro che ho avuto le mie buone motivazioni per fare quello che ho fatto.»

«Ti ascolto.»

«La scomparsa di mio padre mi ha mandato in crisi. Vorrei vedere un altro al posto mio. So che non era presente nella vita familiare ma almeno lo era fisicamente. Non riuscivo a capire perché a fine autunno fosse così strano. Era timoroso, fragile più che mai, stressato, esaurito. Eppure le cose sembravano andargli bene: vinceva continuamente e questo era quello che aveva sempre desiderato. Ciononostante, ha deciso di non tornare più. Qualche giorno dopo la sua scomparsa decisi di cercarlo per mari e per monti ma non sapevo da dove cominciare. Non avevo ancora trovato il floppy disk e quei due fogli, per cui non conoscevo ancora l’esistenza di Alessandro. Pensai che avrei potuto cercare sue notizie nel suo ambiente; il Lotto. Avevo capito che aveva contatti telefonici con qualcuno del settore e così mi sono attivato per trovare il suo o i suoi referenti. Creai il programma che conosci, il SpeciaLotto e, fingendo di chiedere un giudizio, lo feci installare ad alcuni esperti del settore. Questo software, oltre a svolgere alcune semplici funzioni di ricerca, controlla i programmi di posta elettronica di coloro che lo installano. Ogni volta che trova un’e-mail nella quale è contenuta la stringa “Castrogiovanni” o “Gheppio” o qualche altra stringa particolare, me ne invia una copia. Per diverso tempo non mi è arrivata neanche una mail. Con mio grande rammarico scoprii che nessuno aveva scritto nulla di mio padre. Poi trovai la scatola che conosci. Anzi, in verità non si trattava di una scatola; il floppy disk e i due fogli li ho trovati in fondo a un cassetto. Li ho infilati nella scatola solo quando sei venuto a casa mia. Ho cercato di decifrare il contenuto del floppy ma invano. Avrei voluto chiedere aiuto a qualcuno ma a chi? Avevo pensato a te già nei primi mesi di quest’anno ma non mi decidevo mai a contattarti. Poi, finalmente, mi è arrivata la prima mail generata da SpeciaLotto. Hai scritto a una tua amica parlando di mio padre. Nel testo erano contenute delle stringhe specifiche e quindi il mio buon programma mi ha spedito a tua insaputa una copia del tuo messaggio. Hai scritto di aver sognato mio padre che ti consegnava una scatola. Avrei voluto chiamarti in quel momento ma, ancora una volta, non ho trovato il coraggio per farlo. Poi sei arrivato a casa mia. Quale migliore occasione per farmi aiutare da te?»

Appoggiò i gomiti sul tavolo in attesa che io dicessi qualcosa.

«Il tuo discorso non fila. Le lettere di tuo padre spiegano chiaramente tutto. Che bisogno avevi del mio aiuto? Sapevi benissimo come sono andate le cose.»

«Non lo sapevo ancora», disse in maniera decisa.

«Non lo sapevi ancora? Ma che dici?»

«Ti ripeto: non lo sapevo ancora.»

«Le lettere spiegano tutto.»

«Non le avevo ancora. Le ho ricevute soltanto poche ore prima di avertele consegnate.»

Mi fermai a pensare. Frugavo con gli occhi la stanza come se stessi cercando qualcosa che mi aiutasse a ricostruire tutti gli eventi di quella storia. Dondolai la testa.

«Le hai ricevute? Non erano a casa tua?»

«No.»

Mi sentii preso per i fondelli. Mi alzai in piedi e gli puntai un dito addosso.

«Ma guarda che coincidenza! Magari le hai ricevute dopo la telefonata che credevi di fare ad Alessandro…»

«Proprio così.»

«Ricapitoliamo: mi chiami credendo che io fossi Alessandro, ti scopro e mi dici che mi avresti spiegato tutto. Poi, guarda caso, ricevi, non so come, le lettere di tuo padre.»

«Ti giuro che è andata così.»

«Mi permetti di non crederti?»

«Fai come credi. Non so cosa dirti. Capisco di aver commesso un reato, ma dammi l’attenuante della disperazione.»

«Va bene, ti do questa attenuante. Cosa intendi fare adesso? Spiarmi per il resto dei miei giorni?»

«No. Ti chiedo soltanto di aiutarmi. Devo trovare mio padre. Non lo vedo da quasi quattro mesi. Voglio sapere che fine ha fatto. Anche se dovessi venire a sapere che è morto lo accetterei lo stesso. Non posso rimanere in quest’inferno. Ti prego di comprendermi.»

«Cosa ne pensi delle lettere di tuo padre?»

«Che stava molto male a livello psicologico. I suoi nervi erano a pezzi a causa dello stress accumulato e dell’abuso di alcol.»

«Sai qualche cosa che non so?»

«Non ti capisco.»

«Oltre a quello che ha scritto nelle lettere, hai notato qualcos’altro che potrebbe aiutarci nella nostra ricerca?»

«Ad esempio?»

«A parte Marcelli, è venuto qualcun altro a casa vostra?»

«No.»

«Credi che potrebbe essere utile parlargli?»

«Penso di no. Mio padre, a quanto pare, non è stato del tutto sincero con lui. Quindi…»

«È vero.»

Mi venne prepotentemente un pensiero nella mente. Un dubbio.

«Mi hai detto che hai avuto le lettere di tuo padre in un secondo momento. Quale?»

«È stato lo stesso giorno in cui ho parlato telefonicamente con te pensando che fossi Alessandro. Quando sono arrivato a casa ho trovato le lettere nella cassetta della posta.»

«Uhm…»

C’erano tante cose che non mi convincevano nel suo racconto. Così tante coincidenze che mi veniva difficilissimo credere a quello che mi raccontava. E poi, un altro dubbio s’insinuò nella mia mente.

«Nelle lettere», ripresi, «tuo padre fa riferimento a tua madre ma quando sono venuto a casa tua non l’ho vista. Non c’era quel giorno o non vive più con te?»

«Qualche giorno dopo la scomparsa di mio padre non ha retto più e è andata da mia sorella e mio cognato.»

«Adesso vive con loro?»

«Sì.»

«Hai detto di aver trovato le lettere di tuo padre nella cassetta della posta. E la busta?»

«Ce l’ho a casa.»

«Si legge il mittente?»

«Non mi sono state spedite. La busta è completamente bianca. Qualcuno l’ha infilata personalmente nella cassetta.»

«E se volessi guardare questa busta?»

«Possiamo andare a casa mia a prenderla.»

«Come mai mi hai consegnato le lettere dentro una cartellina e non dentro la busta originale?»

«Non c’è un motivo particolare. Pensavo di essere più ordinato in questo modo.»

Giunti sotto casa di Giuseppe egli parcheggiò la sua auto in doppia fila e si avvicinò alla mia Passat.

«Faccio in fretta. Prendo la busta e scendo.»

Gli feci un cenno d’assenso e lui si avviò verso casa. Lo vidi muoversi goffamente verso il cancello. Scese pochissimi minuti dopo.

«La busta è questa. Come vedi è completamente bianca. Non è segnato il mittente, non c’è scritto neanche il destinatario. È stata imbucata e non spedita. Non penso che ci possa essere di aiuto.»

«Vedremo. La prendo io», borbottai ad alta voce.

«Avrei altre cose da chiederti», ripresi, «ma prima vorrei avere un po’ di tempo per sistemare il disordine che ho, al momento, in testa.»

«D’accordo. Chiamami quando vuoi.»

Ci salutammo formalmente e me n’andai. Raggiunsi il distributore Esso, parcheggiai, e raccolsi la busta che era finita sul tappetino poggiapiedi. Fortunatamente non si era sporcata. La guardai con attenzione; era completamente bianca. Non c’era neanche un puntino, uno scarabocchio. Niente di niente. Inclinai la busta per poterla osservare in controluce. Vidi qualcosa di molto interessante. In un punto c’erano delle piccole scanalature. Evidentemente, si era venuta a trovare sotto un foglio di carta sul quale era stato scritto qualcosa. La pressione della penna sul foglio aveva generato dei solchi quasi impercettibili sulla busta. Adesso bisognava leggere quei solchi. Sapevo come si faceva in quei casi. Mi serviva una matita ma non l’avevo. Decisi di aspettare la mia fidanzata. La sua borsa, solitamente, pesava almeno due chili. Possibile che tra quei due chili di roba non ci fosse una matita?


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